venerdì 17 aprile 2020

Mamma-Figlia ovvero Non-Siamo-Amiche


Gli ultimi mesi della mia università (frequenza obbligatoria di lezioni e tirocinio), furono mostruosi, per la Figlia G. Aveva sette anni e, per una serie disgraziata di coincidenze, subì uno stress mostruoso dal fatto di vedermi stanca, angosciata, abbattuta, smagrita, triste... In alcuni potrebbe sorgere la questione sul perché mia figlia non fosse così felice del fatto che la madre stesse coronando il proprio sogno di acquisire il titolo di studio che tanto desiderava, visto che si dice sempre che (1) i figli stanno bene anche senza crescere in presenza costante dei genitori poiché vedono che costoro sono felici - soprattutto la madre, che è una figura cardine della crescita sicura dei figli - della carriera o del mestiere che fanno (se la mamma è felice del suo lavoro, i figli sono felici anch'essi); (2) i figli godono di più di una relazione qualitativamente buona, in riferimento al tempo che trascorrono assieme ai genitori, rispetto a una quantitativamente rilevante (è più importante come stanno i figli insieme ai genitori, rispetto a quanto tempo trascorrono assieme).
Non starò a compiere un racconto specifico della mia frequenza del corso per diventare ostetrica, ma basti sapere un paio d'informazioni: la prima riguarda il fatto che fu amaro scoprire che quando si sente o si legge che le ostetriche sono donne a favore del sostegno tra donne, è -talvolta- una menzogna; la seconda concerne il fatto che io trovai sulla mia strada ostetriche (diverse) e medici (pochi, ma "buoni") che hanno realmente brillato per scarsa professionalità e assente capacità  umana e assente attitudine didattica (il che, trattandosi di una clinica universitaria di ostetricia, ha reso le cose piuttosto complesse). Molto di quello che accadde nel 2008, iniziò quando io scoprii che nelle sale travaglio/parto avvengono atti di spregevole cattiveria contro le donne e, questa scoperta, che mi scioccò e mi rese fredda e scostante con chiunque, mi costò il fatto che la mia assoluta incapacità a trattare le donne come uteri da svuotare, provocò un'insopportabile situazione nella quale io venni trattata per sette mesi quasi tutti di fila (eccezion fatta per un mese di tirocinio in un altro ospedale dove, chissà come, le ostetriche e il resto del personale sanitario - incluso il primario - mi giudicarono ben capace del mio ruolo e della mia funzione) come una povera idiota, inetta, stupida e incapace. Questo mi gettò in una situazione talmente psicologicamente pesante che mia madre era costretta a stare al telefono con me per tutta la durata del tragitto di ritorno a casa tutti i giorni, poiché io uscivo dalla clinica e piangevo fino a casa (faccio presente che talvolta ero obbligata a fare il turno di notte, rimanere a lezione la mattina e dare qualche esame il pomeriggio). Fu un periodo talmente brutto che la meravigliosa Tata dei miei due bambini (avevo solo la Figlia G e il Lillo), era costretta a rimanere, dopo essere "smontata" da tata, per consentirmi di sfogarmi: anche lei, del tutto non addentro nel mondo della sanità (non era ancora mamma, quindi non aveva mai vissuto la situazione sulla sua pelle) ammise più volte che contro di me c'era una congiura. Mio padre, mia madre e suo marito (tutti e tre con esperienza abbondante di docenza: il marito di mia madre era, all'epoca, Direttore di un Conservatorio, non proprio un impreparato), ma anche la Nobis e tante mie amiche, erano stupefatte dei racconti che facevo loro (stupefatte, ma alcune non del tutto sorprese). Purtroppo invece le tante associazioni di ostetriche e ginecologi più lungimiranti che frequentavo per convegni o corsi esterni all'università, mi rivelavano la loro mancanza di sbigottimento nei confronti di ciò che raccontavo. Il culmine avvenne a luglio, il 5 per la precisione, quando mia suocera - giovanissima - morì per incuria medica. Mio marito e sua sorella furono travolti da una tragedia mostruosa che si andò a sommare con l'immenso periodo di crisi che tutti stavamo vivendo anche a causa di chi non ebbe remore di affermare con spocchia alle mie colleghe di corso, che mi avrebbe -  testuali parole - "tagliato le gambe" piuttosto che farmi laureare. La Figlia G mi vedeva tornare a casa in preda a pianti mostruosi tanto che alcuni dei nomi di operatori sanitari che più sentiva nominare, divennero spauracchi dei suoi incubi (andò anche incontro a crisi d'ansia molto forti). Portata da un neuropsichiatra, fu chiaro il fatto che il suo dolore e le sue problematiche non dipendevano assolutamente dalla precoce morte della nonna (capitò, nella disgrazia, che comunque la Fede ci guidasse verso la - difficilissima - accettazione della tragedia), ma da quello che vedeva e viveva nei miei pianti e nei miei tormenti.
Quando tutto si calmò e io fui umiliata "per bene" il giorno della discussione della Tesi di Laurea (ne posseggo un filmato che illustra la mancanza di rispetto assoluta nei miei confronti), la situazione si calmò, per la Figlia G. Tant'è che entrò nel ruolo di sorella maggiore de Lannina, con molta felicità ed entusiasmo. Tuttavia quell'anno provocò cicatrici mostruose, in lei. Non mi lasciava mai. Soffriva tantissimo a recarsi a scuola anche se le maestre erano bravissime. E la sua agitazione non mutò con l'inizio delle scuole medie. Purtroppo non fu un cambiamento felice, un po' per la sfortuna nel trovare alcuni professori inadeguati ("Ma Signora, la bambina non sa l'inglese", si lamentò la professoressa d'inglese che avrebbe dovuto insegnarglielo), un po' perché l'inizio della pubertà la prese alla sprovvista (non perché non fosse preparata, ma perché era sua intenzione rimanere bambina ancora un po'). Fu così che io presi la decisione migliore che potessi mai prendere (nonostante lavorassi già come ostetrica libera professionista) per me e per lei: la ritirai da scuola.
Scoprii che quantunque un genitore è felice della sua professione, questo non toglie che un figlio possa soffrire della sua assenza. Scoprii che il tempo che un figlio trascorre con il genitore è fondamentale anche se non è qualitativamente ottimo, poiché i figli hanno bisogno anche di vivere momenti difficili nella relazione coi genitori e che mostrare di essere sempre felici e contenti, ai figli, non è corretto, ma ingannevole. Ritirai la Figlia G da scuola e imparai il fatto che un figlio (e un allievo, nel mio caso) deve vedere che il genitore deve essere "innamorato" della sua vita, di ciò che porta avanti, delle gioie e dei dolori che vive, senza recite né grandi discorsi. Le fatiche, le privazioni, le difficoltà sono tante, ma il figlio deve poter vedere che vale la pena vivere.
No, non ero certa che la scuola sia totalmente male: assolutamente non ho mai pensato questo tant'è che ho poi sempre usufruito delle scuole di vario ordine e grado. Penso, tuttavia, che i genitori abbiano delegato fin troppo, specialmente le madri. Si delega il ginecologo, il pediatra, l'educatrice, la maestra, la professoressa, la catechista... ma tali persone, che possono davvero essere ottime e di cuore, non possono sostituire il genitore. E io, avendo vissuto ogni singola tappa della delega genitoriale, ero stata costretta a tornare sui miei passi, a riprendere in mano la mia prima passione (l'educazione) e a rivedere ogni cosa. Non avrei accettato neppure per un momento di rovinare a mia figlia il passaggio all'età adolescenziale per il mio capriccio di non volermi occupare direttamente di lei.

Fu così che una mattina passammo le ore a parlare del Sistema Solare (fu la prima mattina di educazione parentale). E fu liberatorio. Certo, dovetti affrontare l'ira di parenti che non gradirono la mia iniziativa: mentre i miei genitori manifestarono l'assoluta comprensione verso la mia decisione, altri si recarono dal Dirigente scolastico della scuola dove presentai la comunicazione di educazione parentale, per pregarlo di mandarmi i Carabinieri. Trovai una persona adeguata, poiché costui, nonostante fui contattata dai Servizi Sociali e ospitai una coppia di Vigili venuti a supervisionare casa nostra (si sedettero chiacchierando e disquisendo dei difetti della scuola moderna), mi convocò informandomi di chi fosse il parente e di quanto non dovessi temere nulla rispetto a questa persona, poiché lui - il Dirigente - aveva sostenuto la mia decisione in modo fermo.

Le giornate erano molto belle nonostante lo sviluppo della Figlia G verso l'adolescenza provocò litigate, urli, discussioni molto pesanti e tanti momenti di incomprensione. Ma andavamo avanti, confrontandoci e apprendendo tanto, scoprendo, ad esempio, che tra Madri e Figlie, mai e poi mai ci deve essere amicizia. La nostra relazione, sincera e appassionata, non sfociò mai né in complicità, né in qualcosa che poteva assomigliare a un rapporto alla pari. Era e rimaneva un rapporto buono, fatto di molte chiacchiere e momenti di femminile cicaleccìo, ma mai di sorellanza. E questo ha portato - con enorme fatica, ma enorme tantissima - a poter sempre e comunque negare una richiesta. E quante glie ne ho negate.
Non è un caso che il premio di Madre Perfida dell'Anno l'ho vinto a più riprese.

Ma le giornate che mi piacevano di più, erano quelle durante le quali, smessi i panni di mamma e figlia, indossavamo quelli di ostetrica e "allieva". La Figlia G veniva con me a visitare le mamme che erano in attesa o che avevano partorito: con molta curiosità toccava anch'ella le pancione delle mamme che, divertite, rispondevano alle sue domande. Cullava i neonati mentre io disinfettavo le suture. Aiutava nei primi bagnetti. E, soprattutto, partecipava agli incontri di preparazione alla nascita, ovvero a quei momenti di assoluta cultura tutta al femminile durante i quali si parla degli uomini, del bello e del brutto della vita di coppia, della stanchezza e della gioia nell'andare d'accordo, nella spossatezza e nella felicità di diventare mamme, della paura e della curiosità di dare alla luce un figlio... Respirava femminilità e gioia nell'essere figlia femmina.

Tra un'analisi grammaticale e una visione di un documentario storico, la Figlia G scoprì la bellezza di diventare donne, di esserlo dentro. Il che non significa indossare tacchi e truccarsi, non significa usare il proprio corpo per divertimento, non significa cercare qualcosa o qualcuno che renda felice fuori, ma sentire, odorare, profumare di meravigliosa mammitudine (essenza ontologica dell'essere donna) trovando l'autentica felicità in quello che la donna può cullare dentro (anche spiritualmente). Piano piano, la Figlia G ha scoperto la meraviglia di crescere nel corpo e nello spirito che Dio ci assegna dal momento del nostro concepimento.

Tornò a scuola alle superiori, al liceo. Non fu una passeggiata, ma il fatto che oggi, mentre prepara l'esame di maturità, studi già cosa vorrebbe fare "da grande", è la riprova che la gioia nel capire, approfondire, scoprire e "digerire" una materia, è meraviglioso. E il fatto che ella trasmetta la cultura dei Metodi Naturali di Regolazione della Fertilità alla sorella minore, illumina il mio sguardo e rasserena il mio animo.

Non siamo Amiche, siamo - orgogliosamente - una mamma e una figlia.