C’ero già passata con Lillo quando era in prima elementare: tenni
duro per un altro paio d’anni, poi cedetti e lo tolsi da scuola.
L’accusa dell’insegnante era di essere “ossessionato dalla guerra” e
“asociale”: le prove erano il fatto che disegnava battaglie talvolta
piuttosto improbabili -ricordo Svizzera-Cina, Danimarca-Corea,
Inghilterra-India- con tanto di rumori di sottofondo -‘boom’, ‘AAAAH’,
‘Sfishhhh’- durante l’intervallo a scuola, seduto al banchino.
La prova
del fatto che fosse un futuro potenziale guerrafondaio stava nel fatto
che i suoi disegni erano dei "lungometraggi" fatti da fogli A4 incollati uno dopo
l’altro (il disegno viaggiava da casa a scuola per giorni interi, anche
perché i compagni volevano sapere come sarebbe andata a finire: tra
l’altro spesso suggerivano loro stessi i colpi di scena che Lillo doveva disegnare) e dal fatto che l’intervallo lo passava al banco
invece di turare i lavandini con la carta igienica, svuotare la borsa
della maestra, correre a squarciagola per tutto il corridoio o tentare di
trafugare le monetine dalla macchinetta del caffè in sala insegnanti.
La pecca di mio figlio era quello di essere un bambino maschio
tranquillo.
Allucinante, oserei dire. Per chi si sta chiedendo, a ragion veduta, se il bambino lo facesse durante la lezione o al posto dell’esecuzione dei compiti, rispondo chiaramente che no: era il suo passatempo solo nei momenti in cui poteva farlo, non sempre. I compiti venivano consegnati con regolarità -cosa che l’insegnante sembrava facesse essere in secondo piano rispetto al sospetto di avere un membro degli specnaz in seconda elementare-, i quaderni parzialmente ordinati erano segno del fatto che la creatura in classe lavorasse, il bambino in cortile interagiva serenamente coi compagni.
Certo, mi era
sottolineato molto spesso, giocava alla guerra: c’erano sempre pattuglie
da distribuire, eserciti da organizzare, truppe da comandare e soldati
da armare (righelli e gomme erano ottimi fucili e bombe). Chissà, chiesi
all’insegnante in un ultimo sprazzo di magnanimità e pazienza, mi
domando cosa l’ottimo giornalista e scrittore Giovanni Mosca si
aspettava dai suoi 30 alunni di quinta elementare, quando racconta i
suoi anni da maestro elementare in “Ricordi di scuola”. Chissà cosa un
maestro avrebbe osservato e concluso su Lillo, se ai maschi fosse
concesso avere insegnanti maschi: sarebbe tanto strano un bambino che
immagina di far parte di un esercito? Io ne parlai, presa dalla foga
“oddio-non-sono-una-brava-madre”, con un neuropsichiatra infantile che
neanche volle vedere mio figlio: lui era sano, la maestra -a suo dire-
avrebbe avuto bisogno di un sostegno psicologico.
Conservo sempre i chilometri di battaglie, densi di avvenimenti e
pieni di coloratissimi eserciti (Lillo è poi diventato un esperto in
bandiere, in seguito è stato bravissimo a geografia e storia) e, adesso
che Cigols ha la medesima età che aveva il fratello, lo scettro da
comandante di ipotetici plotoni è tutto suo. Lillo ha
potuto proseguire per la sua passione che l’ha portato a visionare ore
di ottimi documentari, sfogliare pagine e pagine di libri di storia,
ascoltare, soprattutto, i racconti sul suo bisnonno che combatté a
Nikolaevka (Giulio Bedeschi intervistò anche lui, per i suoi racconti)
grazie anche al fatto che per un anno ha potuto fare scuola a casa.
Certo, avrebbe potuto portare avanti la sua passione anche andando a
scuola (magari non con la medesima insegnante), come poi in effetti ha
fatto, ma probabilmente si sarebbe sentito in dovere di trovare un’altra
passione più pacifista, oppure si sarebbe dedicato alla sua passione in
modo smodato, rifiutandosi di studiare. Non sappiamo come sarebbe potuta
andare, ma certamente la realtà dei fatti è che Lillo aveva
cominciato ad odiare la scuola, a trovarla solo un peso, a non
sopportare la maestra e ad agognare il fatto, un domani, di non studiare
più.
Quindi intervenni io: mi informai e scoprii il fatto che sia
l’istruzione ad essere obbligatoria in Italia, non la scuola. Mi tirai
su le maniche e affrontai l’homeschooling, altrimenti detta
‘educazione parentale’. Fui colpita dal fatto che Lillo fosse curioso,
attento, osservatore e deduttore: comprendeva i motivi che portano
alle guerre, le cause dei combattimenti tra popoli. Aveva sete di
Storia, e, attraverso questa, abbiamo potuto fare tutto: italiano,
matematica, geografia, scienze… basta cogliere una passione e sfruttarla
in mille salse. Un po’ come il commilitone di Forrest Gump che poi
viene ucciso in Vietnam: una volta pescati i gamberi, puoi cucinarli in
mille e un modo. Lillo desiderò tornare a scuola per prendere la
licenza elementare ed è diventato un sapientone, nella sua materia:
attraverso lo studio dei suoi avi ha approfondito la prima guerra
mondiale (il mio bisnonno era tra i ‘ragazzi del ’99 e un prozio è stato
generale a Caporetto -14° C.d.A.-) e la seconda (il già citato nonno
facente parte della famosa Tridentina e suo fratello disperso sui cieli
di Libia), portandolo ad accarezzare l’idea di vedersi, un giorno,
facente parte del corpo degli Alpini. “Terrificante – mi fu detto da
alcune mamme – Ma come puoi essere contenta di vedere tuo figlio con
un’arma, uccidere qualcuno?”, è stata la domanda che mi è stata fatta
alcune volte.
Per non parlare delle docenti: “Signora ma non è normale
che un ragazzo di tredici anni voglia indossare la divisa!”, mi è stato detto. Io col tempo ho imparato a rispondere che da mio figlio,
testosteronico sino al midollo, non mi aspetto che uccida qualcuno, ma
mi aspetto che difenda chi è in difficoltà, desidero che abbia il
coraggio di proteggere i suoi figli e sua moglie e che, se indosserà una
divisa, lo faccia con onore ed estremo rispetto per sé, per il nostro
Paese e per i suoi avi che hanno fatto lo stesso. Mio figlio non
attaccherebbe mai, né è una persona aggressiva (quanti possono dire di
avere un figlio tredicenne che cambia con amore il pannolino al
fratellino di un mese o fa giocare alle costruzioni il fratello di due
anni e mezzo?), tant’è che tutti i professori lodano la sua imparzialità
e il suo rispetto per la loro figura di adulti e insegnanti. Tuttavia
sanno che Lillo non tollera ingiustizie e scaramucce tra compagni: è
colui che si è guadagnato all’unanimità il titolo di “Presidente della
Classe” di fronte ai consigli di classe e ai professori, ma afferma con
chiarezza le proprie idee sociali e religiose.
E’ il primo che
accompagna la sorella più grande al buio, e fa scudo alla più piccola
quando attraversano la strada. Care Signore che mi chiedete se sono
contenta se avrò un figlio con un’arma (chi conosce il Krav Maga sa che
l’arma può essere anche il corpo di un uomo, non occorre avere la rozza
ferraglia con sé) e gentili professoresse che sentenziate sulla
normalità di mio figlio nel voler indossare una divisa: ma a chi
desiderereste chiedere aiuto in un momento di difficoltà? Chi immaginate
al vostro fianco o a fianco delle vostre figlie? Come contate di
sopravvivere se qualcuno d’indesiderato entra in casa vostra? Chi
sperate che intervenga se una delle vostre figlie viene molestata? Mio
figlio ha compiuto una scelta: vuole essere colui che difende, colui che
protegge, colui che affronta ‘i cattivi’. E ne sono fiera.
Non a caso Cigols, come ho già detto, è entrato nel protocollo
emulando il fratello: ma il problema, per lui non è sorto alla fine
della prima elementare, ma all’inizio. Anzi: i primi giorni di scuola. Come spesso le maestre fanno, gli fu chiesto di disegnare se stesso: è
una di quelle attività creative che aiutano a rompere il ghiaccio sia
alle insegnanti, sia tra i bambini. Cigols non è molto votato al
colorare, ma al disegnare sì e, mai come quel giorno, gli riuscì
disegnarsi. Lo fece con attenzione e non tirò via neppure quando
aggiunse un particolare importante, alla propria figura: il fucile.
Cigols si è disegnato come un soldato (un Alpino, specificò). Venne a
casa tutto fiero di aver prodotto un se stesso così forte e coraggioso,
per lo meno quanto il proprio fratello maggiore. Anche il giudizio
dell’insegnante (un “bravo” a penna rossa) non lasciava presagire nulla
di strano.
Se non che, i giorni a seguire, tanto per trasmettere ai
bambini dei segnali culturali -a mio parere discutibili, ma
l’imposizione veniva da tutta la scuola-, fu distribuita una bandiera
della pace da colorare con delle figurine che rappresentano delle azioni
che è corretto compiere o meno. Le figurine erano da impilare sotto le
diciture “Si fa”, “Non si fa” e simboleggiavano: un bambino che si lava
le mani, uno che dorme, un soldato, due bambini che giocano con delle
macchinine, due bambini che stanno per litigare (unica fonte che facesse interpretare la gestualità litigiosa era lo sguardo accigliato di entrambi), uno che studia.
Com’era da dare per scontato, il soldato e i due bambini litigiosi era
previsto collocarli sotto la dicitura “Non si fa”. E non a caso, Cigols tornò a casa dicendo chiaramente che lui era sbagliato. Lì per lì non
feci un caso dell’evento, poiché tendo sempre a smorzare. Mi limitai a
suggerire a Cigols di chiedere, quando si fosse sentito in grado e in
confidenza con la maestra, la spiegazione di quella suddivisione così
netta. Sì perchè, al di là di tutto, mi chiedo il motivo per il quale
sia considerato sbagliato litigare: voglio dire, se tu mi entri in casa,
mi rubi le mie cose, mi offendi o comunque mi manchi di rispetto,
magari da adulto io posso pure tentare un approccio dialettico (sempre
che tu non mi attacchi violentemente), ma da bambino, e soprattutto da
maschio, io reagisco fisicamente.
Non vorrei scomodare chi più di me ha
compiuto ricerche sociologiche sull’argomento, ma chiunque di noi sa che
tra bambini maschi, il cazzotto, lo scuffiotto, la ciaffata, lo
spintone, sono mezzi di risoluzione alle discussioni, piuttosto
sfruttati. Che poi si debba trasmettere il messaggio che è sempre meglio
il dialogo (monito al quale io personalemente credo fino a un certo
punto, ma io non sono una fan di Marshall Rosenberg e della
Comunicazione Non Violenta), alle botte, mi può star bene in un contesto
sociale equilibrato come quello scolastico, tuttavia non so se potrei
mettermi a discutere pacificamente con qualcuno se mi rubasse la borsa o
tentasse di farmi del male. Ciò che poi si dimentica nel rapporto tra
maschi, e Guareschi ce lo ha insegnato, è che nonostante l’aggressività
insita nel rapporto tra pari, spesso poi la “bolla” si sgonfia
rapidamente come rapidamente si è gonfiata, e tutto termina poi
velocemente anche con un’amicizia.
Non metto in dubbio che un uomo
sbagli a picchiare qualcuno che abbia forza e prestanza fisica
inferiori, ovviamente, ma che due maschi di pari stazza si assestino un
paio di cazzotti non mi scandalizza. Cosa mai temono le insegnanti e le
mamme di oggi che anelano ai corsi per prevenire il bullismo? Viene da
pensare al fatto che esse desiderino che i maschi non lo siano. E
siccome i maschi crescono con insegnanti donne e madri che educano loro
dicendo: “Bisogna imparare a parlare invece che ad alzare le mani!”,
oppure: “Non si picchia!!”, ma conservano in loro stessi la loro
predisposizione alla reazione fisica (le educatrici dei nidi lo sanno
bene: fin dal gattonamento il maschio è maschio fino al midollo),
debbono sfogarla in qualche modo specialmente se non fanno nulla dal
punto di vista sportivo. Menomale, e lo dico con sarcasmo, che esistono
la play-station o la wii, se non i social networks: il vero bullismo, lo sappiamo bene, passa da internet e solo in contesti molto particolari, dalle reazioni fisiche.
Cigols rimase di per sé un po’ abbattuto dal fatto che ciò che lui
vedeva auspicabile per sé, non andasse bene alla sua maestra, tant’é che
pagine dopo, di nuovo si ritrasse in veste militaresca. Per lui,
indossare la divisa, e cito testualmente, significa: “Salvare le
persone”. Quello che lui desidera fare è poter essere qualcuno nei
confronti del quale le persone si sentono protette. Oh, ma guarda:
Cigols non vuole ‘offendere’, ma ‘difendere’ (come previsto
dall’articolo 11 della Costituzione Italiana): non brama uccisioni e
sangue, ma il suo scopo è salvagurdare e soccorrere. E se fosse stato lo
scopo pure del soldato disegnato in quell’icona che era previsto che
stesse nella colonna delle azioni che non si compiono, insieme ai due
che stanno per litigare? E se anche la causa della discussione tra i
bambini che sono lì lì per darsele, fosse una questione di giustizia?
Forse non ci si era soffermati sull’argomento, ma perché far
disegnare ai bambini solo quello che è sempre corretto in un modo di vedere adulto e non un modo di vedere infantile? E se Cigols fosse stato figlio di un Carabiniere (lo stesso Carabiniere
che chiamiamo quando abbiamo bisogno, ma anche lo stesso che muore
sotto il fuoco dei malviventi)? O di un militare impiegato anche per
aiutare nelle ricerche dei dispersi dopo le valanghe? Quell’immagine
incollata sotto la scritta “Non si fa” avrebbe voluto signifcare che il
padre di Cigols era impiegato in qualcosa di sbagliato, e sappiamo tutti
quanto i bambini sono spesso drastici nelle loro prese di posizione.
La
scuola è lì per istruire e per trasmettere dei dettami di buona educazione: lo vediamo
quotidianamente quando passano notizie su ragazzi che picchiano, ragazze
che mortificano, studenti che aggrediscono i docenti, che il problema
non è risolvibile solo tra banchi di scuola (anzi, se invece di tanti
progetti scolastici particolari o la promozione dell’uso della lavagna
luminosa, si insegnassero bene e con più severità le materie
scolastiche, magari avremmo meno ignoranti), ma a partire dalla
famiglia. Educare vuol dire che i ragazzi devono stare coi genitori e che costoro sono chiamati ad educare. La scuola poggerà la creanza sulle basi familiari e non deve accollarsi anche la base dell'educazione, dello stare al mondo. Sapere che la capacità di
essere un cittadino responsabile dipende dal genitore, da noi, fa subito
capire che guardare i nostri figli ci da una proiezione sugli adulti di
domani.
Ed allora è lì che la scuola può compiere il suo ruolo: portare
a termine l’istruzione (Teorema di Pitagora, i Promessi Sposi, i
capitelli dei templi greci, le declinazioni eccetera) e preparare gli adulti di domani attraverso la formazione. Terminerebbero forse allora le ‘giornate della
salamandra’ (giusto per inventarsene una) con la distribuzione
d’improbabili e utopistiche salamandrine colorate, i libri di scuola
parlerebbero di proprietà commutative e di affluenti del Po senza
cercare di insegnare che “Luigi ha due papà che comprano 3 mele
ciascuno, quante mele in tutto?” e i ragazzi saprebbero chi saranno
quando cresceranno: donne e uomini. Le insegnanti vogliono educare, e a
volte sono costrette a farlo, anche perché le famiglie sono spezzate in
mille e un pezzo, le madri lavorano, i padri si ricreano altre famiglie,
di matrimoni duraturi manco l’ombra e i bambini sono alla mercé dei
loro sentimenti e dei loro capricci, della loro solitudine e dei loro
progetti per il futuro del tutto nebbiosi.
Torniamo ad educare i nostri figli. Torniamo a fare i genitori. Cresciamo adulti consapevoli.