venerdì 31 dicembre 2021

L'unica ragione di vita - Te Deum Laudamus

Perché siamo al mondo? 

Questa domanda mi tormenta da anni. Soprattutto nella sofferenza, mi sono trovata a guardarmi allo specchio e a ripetermi incessantemente il motivo per il quale siamo su questa Terra. 

Per comprendere a pieno il significato dello stare in vita e l'importanza del farlo bene, è stato necessario, per me, vedere la vita spegnersi. 


La nonna Marisa nacque a Livorno da Eda Rigacci e da Gino Mecocci il 21 gennaio del 1928. Nella sua vita ha vissuto tante vicende piuttosto ordinarie, tuttavia le sue sofferenze sono state legate a tre morti che la segnarono tanto: quella della sorellina Anna Maria (della quale parlai qui) e quello del figlioletto settimino e, soprattutto, del suo amato bene, il nonno Gianni (del quale parlai qui). 
La nonna scelse di fare la maestra ed è ai ragazzini che ha dedicato la sua vita, oltre che alla figlia amata. Amata tanto che ha sempre tentato di aiutarla in tutto, tanto da commettere errori che hanno coinvolto le persone che dalla figlia dipendevano... Quante volte capita, a noi genitori, di sbagliare? Quante volte le ho sentito dire che lei avrebbe dato la vita, per la figlia? E, per quanto le fu possibile, diede la vita anche per i suoi nipoti... Per me, innanzitutto: insieme al nonno Gianni mi hanno amato follemente, occupandosi di me in modo amorevole e spesso fin troppo poco severo (come spesso fanno i nonni, comprensibilmente), quando ero sola ad affrontare la mia adolescenza. Un bene immenso che la spinse a trasferirsi per aiutarmi a fare la mamma. Ricordo ancora l'angoscia della mia piccina Figlia G che, sofferente a causa mia (la cretinaggine di voler seguire le indicazioni che la facevano piangere, è leggendaria): ero esausta dai suoi pianti e volevo anche sistemare la casa, darmi una sorta di sembianza umana. Lei arrivò col nonno dopo aver fatto "pascolare" la cagnetta Janis (il nonno soleva dire così) e io le diedi la bambina piangente... Non ne potevo più. Lei la prese, la tranquillizzò e poi me la restituì: «Figlia tua, occupatene tu. Io sistemo casa. E adesso smettila con le stupidaggini: allatta 'sta figliola!».

La nonna non aveva un carattere semplice: ogni mattina si alzava dal letto in un modo e per quel giorno dovevi andare d'accordo con una persona che il giorno precedente e successivo era capace di relazionarsi con te in modo diametralmente opposto a quello odierno. Persona attivissima e resistente a tutto, tranne alla mancanza d'amore che caratterizzava il suo essere madre.
Quelli che amò tantissimo, liberatasi dagli impegni lavorativi e dal peso ovvio dato dalla mia scapestrata giovinezza, furono i miei figli. Divenuta bisnonna all'età in cui spesso si diventa nonna, rimase sempre con noi, soprattutto dopo che il nonno venne a mancare improvvisamente. Non fu una convivenza facile, ma senza di lei e il mio sposo, non avrei mai potuto frequentare l'università*. Ricordo benissimo, incinta de Lannina, mentre preparavo l'esame di laurea: abituata a studiare di tutto, era in grado di risentirmi sulle materie come "Assistenza al Parto", "Fisiologia e patologia del parto", parimenti a come a giugno scorso risentiva "Filosofia" alla Figlia G. Presente e estremamente attenta a ogni situazione, la sua vita erano i bambini: regali, letture di favole, sgridate, compiti...

Certo, il suo modo di affrontare la vita, sempre combattendo con tutti e imponendo il suo stile in tutto, non rendeva le cose semplici, ma era donna d'altri tempi e nulla si poteva fare per smussarla.
La persona che più ha amato al mondo è stata sua figlia, per la quale ha straveduto fino in fondo. Ed è stato commovente vederla rendersi conto che non l'avrebbe più rivista, l'ultima volta che ella è venuta a trovarla. 

Era infatti settembre, quando mi contattò una sua allieva della quale la nonna si ricordava benissimo. Volle farsi fare una foto da mandarle e rispose con un audio ai suoi saluti. Si ricordava persino come usava pettinarsi da bambina. Si parla della fine degli anni '60 e la sua mente non aveva mai vacillato sino a quel momento. Ricordo che a ottobre cominciò a confondermi talvolta con la Figlia G, chiedendomi cosa stessi studiando. Notai qualcosa di strano quando smise, come invece aveva  fatto abitudinariamente negli ultimi anni che abitava di fronte  a casa nostra con una badante, di chiedermi dove fossero i bambini, cosa stessero facendo, se stessero bene. Ogni giorno andavo da lei verso le sei di sera e tutte le sere mi chiedeva se fossero tutti rientrati: avendo un carattere ansioso (chissà da chi ho preso), la sua preoccupazione riguardava il fatto che tutti fossero sani e salvi tra le mura domestiche. La sua memoria cominciava a fare scherzi strani, dei quali lei spesso si accorgeva e, da brava toscanaccia, ne faceva oggetto di autoironia: «Mi sa che mi sto rimbecillendo come mamma», rideva. La sua mamma, la nonna Eda, la ricordavo ancora in piena demenza senile, quando abitava oramai a Moltrasio dopo aver trascorso quindici anni a Viareggio, a raccogliere gatti trovatelli e a prendersene cura. La ricordo curva che cammina intorno al tavolo dove preparo l'esame di terza media (bei tempi, quelli degli esami), immersa in un'analisi logica che a tutt'oggi non amo particolarmente. Ero inebetita dall'ennesima frase da analizzare e mi ero distratta per l'ennesima volta. Mi arrivò un "nocchino" (per i non toscani: colpetto secco sulla testa, dato con le nocche delle mani) senza preavviso e la mia bisnonna, che era calata in un mutismo senile da quasi tre mesi, sentenziò: «È complemento oggetto, imbecille!» e, ovviamente, aveva ragione. Si trattava di un complemento oggetto (non discuto sul linguaggio: essere per metà livornese e metà fiorentina, perdona la schiettezza). 

A novembre la sua voce iniziò a farsi lieve, i suoi movimenti, dati da un parchinsonismo accentuato, erano meccanici e fastidiosi. Colsi la palla al balzo, come si suol dire, approfittando del fatto che da anni, oramai, seguiva sempre la Messa della domenica alla televisione e talvolta il Rosario su TV2000: ero preoccupata per la sua anima, che non potesse godere immediatamente della Luce di Cristo. Figlia di una generazione per la quale la Fede è uno status di forma e non di sostanza, era fondamentale sottoporre i bambini ai sacramenti, ma non era certo una persona che frequentava né la domenica, né la vita di chiesa. Mi ero cocciutamente messa in testa che avesse il diritto di raggiungere il Paradiso subito e sentivo il tempo scivolarmi dalle mani come un rigagnolo d'acqua corrente.
Approfittai del suo cedimento e mobilitai Il Don. Da quel momento, dopo la sua Riconciliazione, le portammo sempre la Comunione, ogni volta che la prendevamo noi anche oltre quella domenicale. Finalmente il mio cuore era leggero. Più volte venne a pregare con lei Il Don e mai lo ringrazierò abbastanza, per questo. Verso metà di novembre la sua mente era spesso assente e così, presa la Pantuffola nel marsupio sulla schiena, preso il Piccinaccolo sul passeggino, passati a prendere Cicols e Checcolens a scuola, coadiuvata dal Lillo e accomodata la nonna sulla sedia a rotelle (cedere al mezzo di trasporto che più ella temeva, mi dava la misura della consapevolezza del suo cedimento), andammo a fare una passeggiata: potette vedere di nuovo il mare, guardare i suoi bimbi giocare nella sabbia freddissima e gustarsi un gelato al fiordilatte. Fu un pomeriggio che loro ricorderanno sempre. L'ultima gita fuori casa. 

Ne ero consapevole. Come un mantra entravo in casa sua, la sera o a metà mattina, ripetendo la frase: «Non arriva a nuovo anno, non arriva a nuovo anno». Lo dicevo per convincermi, quasi per prepararmi. Dormiva molto, abbioccandosi anche sulla sedia a rotelle nel breve tratto tra la cucina e il salotto. Non chiedeva più dei nipoti, non sapeva più dove fossero e cosa stessero facendo. Sapeva solo che ogni tanto era abbracciata e baciata da gente piccola e rumorosa che, strillando e ridendo, la chiamava "Nonna! Nonnina!". Ero certa che la sua mente stesse dando gli ultimi sprazzi di luce e tentavo di mantenere la sua memoria sul passato, quando decisi che era venuto il momento di chiamare la figlia amata. 

Mi affacciai alla sua camera, capii che era sveglia perché si agitava sempre per tentare di alzarsi. La salutai e lei mi guardò: il suo sguardo mi comprese e mi sorrise, quando nel suo raggio visivo vide la sua amata figlia era emozionata in modo enorme: «Sei qui, abbracciami! Sei qui! Abbracciami!», le chiese commuovendosi. Mi allontanai sentendomi quasi di troppo, in quell'abbraccio nel quale una madre e una figlia dovrebbero amarsi incommensurabilmente, soprattutto dopo una vita difficile, un rapporto complesso e il volgere al tramonto di una delle due. Sentendomi un'intrusa preparai il caffé, e in assenza di lei, la nonna me lo sussurrò con un filo di voce: «Forse questa è l'ultima volta che la vedo». Le risposi che sì, era probabile: glielo dissi con un sorriso, tenendole la sua mano nella mia. Le lasciai parlare, le lasciai sole pregando Iddio che le facesse ricongiungere, che aprisse il cuore di entrambe, l'una verso l'altra. 

La mia angoscia aumentava ogni giorno nel vedere che gli scherzi che la mente le faceva, non erano più comprensibili. Le portai le foto della sua famiglia: le nonne (Saffo e Giuseppina), gli zii (Lamberto e Lina), tutti i momenti salienti della sua vita dal suo meraviglioso matrimonio col nonno, al Battesimo della figlia, alle gite col nonno... ma soprattutto le foto della piccola Anna Maria. Giunse il giorno che mi vedeva senza guardarmi, che i suoi risvegli erano pochi e delicati, che il suo corpo era dimagrito pesando quasi solo come una delicata gabbietta di uccellini. Il 22 dicembre le rubai una foto, nella quale lei è semi-addormentata, con lo sguardo perso nella sua immensa fragilità... mancava poco e lo sapevo. Era il 25 quando io e Lillo, intenzionati a portarla a casa nostra per il Natale, abbiamo desistito: non poteva farcela, neppure portata in braccio. Il 26 il suo sguardo era perso. Ero convinta che fosse giunta alla fine. Lo capivo chiaramente. Mi tenne la mano, stringendola con una forza quasi innaturale, per una piccola vecchietta. Il Rosario una volta, due volte... L'Olio Santo, la Coroncina della Divina Misericordia... ma soprattutto i nipoti che la baciano, l'abbracciano, l'accarezzano. Lannina che le dice di riposarsi... 

«Non temere nonna, non aver paura», le mie lacrime scorrevano, ma sapevo che Anna Maria l'aspettava. I giorni addietro me l'aveva flebilmente annunciato, con un fil di voce: «Anna Maria mi aspetta, tra poco la rivedo».

Le ore che passano, fino a che il suo cuore, all'alba del 27 dicembre, ha ceduto dopo quasi 94 anni e nove mesi di lavoro. Nonna mia, com'eri stanca. Com'è difficile vederti dormire, in un sonno nel quale sembri una bambina. Mi sento soffocare dal fatto che ti conosco da prima di venire al mondo e sei il primo frammento della mia infanzia che se ne va: sono stata fortunata, mi dico. Quante nipoti possono vedere la nonna per così tanto tempo?
I nipoti piangono, sciolti in un amore enorme per quella vecchietta bisbetica e affezionatissima, che ha ninnato la maggior parte di loro con un cuore denso d'amore.

Perché siamo al mondo? Per amare. Non vi sono altri motivi che rispondono meglio a questo dettame. Ben fece Gesù, quando impartì un comandamento solo «vi do un comandamento nuovo, che (vi) amiate gli uni gli altri; come (io) ho amato voi, (vi comando) che anche voi (vi) amiate gli uni gli altri» (Giovanni 13,34)». Amare significa dare il buono che c'è in sé, senza riserve, senza limiti, senza temere di non ricevere nulla in cambio. Amare è fare in modo tale che il bene che si sceglie di fare ricada sugli altri, in virtù di un circolo virtuoso fatto solo di cose buone e belle. Guardando la tristezza negli occhi dei miei figli all'indomani dell'annuncio della morte della nonna, ho sentito chiaro, dentro di me, la necessità di sforzarmi per dare loro amore, senza promettere altro. 

In questo tempo terribile, io ringrazio Dio. In questo tempo di aggressività e sfiducia reciproca, io ho visto un'anima salire in Cielo e farsi angelo custode dei nipoti amatissimi. Siamo umani, per cui soggetti a commettere errori enormi, ma il perdono reciproco può solo portarci nel luogo della Luce, volgendo le spalle alle tenebre e al buio che la carne umana è spinta a inseguire. 

Quando capiremo che ogni nostra scelta che porta verso il bene chi a noi è legato, è quella da perseverare se pur con fatica, avremmo la chiave per non vedere, nell'immensa caducità della vita, nulla di brutto, ma solo quello che la vita è: un passaggio troppo breve per l'odio, il rancore, il dolore. Talvolta la vita è combattere per se stessi, per quelli che paiono i propri diritti (tra cui quello terribilmente fallace della felicità per noi stessi), ma poi ci rendiamo conto - se guardiamo la nostra vita dall'alto - quanto questo sia un enorme inganno. L'immensità della vita è darsi agli altri senza riserve, morendo nel proprio egoismo per rinascere al bene di chi ci ama. 

Te Deum Laudamus perché ogni persona che mi è vicina, senta il bene enorme che deve solo essere scelto. Te Deum Laudamus per chi lo ha compreso e per chi deve ancora comprenderlo, spesso lasciando nella sofferenza chi gli è vicino. Te Deum Laudamus perché l'amore supera la barriera della morte. Te Deum Laudamus perché ognuno di noi non patisca la rigidezza del peccato e si lasci amare da morire, da Colui che è morto per la nostra salvezza. Te Deum Laudamus perché io sia strumento della Tua salvezza.


Nonna, ti vogliamo bene. 

Grazie.


*non dimentico che anche la Tata è stata fondamentale per aiutarmi a portare avanti il mio percorso universitario.