E così, dopo che il "clic" di crescita lo aveva fatto la Figlia G (ne parlai qui), ora tocca a lui, il Lillo. E siccome mamma è sempre mamma, l'ansia aumenta. Ma perché aumenta? Infondo ci sono già passata...
Lillo è un figlio stupendo. Cioè, non per vantarmi, ma lui è davvero il top, come già ebbi modo di raccontare (qui).
Tuttavia c'è tutta una serie d'incertezze, quando i figli crescono, che mi fanno ammettere che quel detto "Figli piccoli, problemi piccoli, figli grandi, problemi grandi", sia stato coniato da una persona estremamente saggia.
Sono certa del fatto che uno cresca i figli educandoli il più possibile sino ai 10/11 anni, anno più anno meno, ma poi debba vivere 'di rendita' instaurando una relazione che comporti sì un rapporto verticale (non c'è mai un rapporto d'amicizia coi figli), ma sapendo che un figlio possiede aspirazioni, personalità, vocazioni proprie, che il genitore non può mutare, ma agevolare, sostenere, correggere (con l'esempio, ovviamente). Quando poi il figlio giunge al termine dell'adolescenza, verso i diciotto/vent'anni massimo, la relazione deve possedere alcune caratteristiche: innanzitutto tra genitore e figlio vi deve essere fiducia.
Io mi fido dei miei figli: la Figlia G e Lillo sono capaci di fare da soli. Qualsiasi cosa accadesse a me o al loro papà, io sono straconvinta che non avrebbero difficoltà a occuparsi dei fratelli. Non mi auguro il fatto che accada, ma quando è nata la Pantuffola, la Figlia G mi scrisse via whatsapp: "Tranquilla, qui tutto bene.Tu delivera (dall'inglese 'delivery': 'partorire) la bambina che noi ci arrangiamo". Ed è stato così. Oltre che essersi arrangiati, hanno lavato, nutrito, gestito fratelli di età compresa tra i 2 e gli 11 anni.
Fidarsi dei figli significa che credi loro, che chiudi gli occhi e ti affidi alla loro intelligenza, competenza e maturità. Questo è un passaggio che è necessario imparare su di sé fin da quando il bambino è piccolo piccolo. Io sono figlia della generazione che supponeva (ovvero che aveva l'arroganza) di sapere cosa sia il meglio per un naonato e per un bambino. Tale altezzosità presupponeva il credere che il neonato sia un piccolo deficiente incapace che non sa quale sia il meglio per sé: ecco perché s'imponevano orari e si pensava che bisognasse insegnare a dormire (ovviamente quando il bambino non sentiva di avere sonno) o a mangiare (come se gli adulti mangiassero sempre alla medesima ora, ogni giorno)... Medesima cosa accadeva coi bambini, sprovveduti di ogni capacità se non - si badi bene - quella di trarre in inganno il povero e disarmato genitore, che finiva vittima della furbizia dell'infante: tale caratteristica andava domata, dominata e sbriciolata sino a demolire ogni minimo istinto di sopravvivenza dell'arguzia propria dell'essere umano creativo. L'adulto era detentore di traumi infantili che la sua anima custodiva recalcitrante e che riproponeva in veste diabolica, nel momento in cui toccava a lui stare al comando. Io sono la figlia di quella generazione, dicevo, ovvero di quella fase pedagogica che dava per scontata l'inesistenza di una relazione educativa tra adulto e bambino. Tale fase pedagogica era molto simile a quella della generazione precedente, ma denotava una progressiva indolenza del genitore che, al contrario del controllo genitoriale che i figli delle generazioni precedenti vivevano sino all'età giovanile, andava via via allentando le maglie perché distratto dalla propria vita personale.
Non che ora sia meglio, per la relazione genitori-figli, che è sempre più ridotta a un lumicino che sta per spengersi: complice un individualismo progressivo, ogni persona che coabita sotto il medesimo tetto, non è sempre in relazione con i coinquilini. Accade spesso, quindi, che un figlio - messo al mondo per la soddisfazione personale del genitore, oppure per caso - subisca una costante e castrante inesistente relazione con chi dovrebbe educarlo ad essere adulto maturo, oppure con chi è disturbato semplicemente dalla sua esistenza che intralcia i suoi piani. Il risultato è il medesimo: frotte di adolescenti e giovani persone del tutto agonizzanti e prive di un qualsivoglia moto spontaneo alla ricerca di una sopravvivenza migliore di quella della generazione che l'ha preceduta.
Sì perché non so se sono l'unica alla quale accade, ma io sono molto felice del fatto che ai miei tempi non c'erano tante cose con le quali i miei figli si debbono confrontare. C'era tanta mer schifezza pure già negli anni '80, ma non così come ora. Niente cellulari, per esempio. Se penso al mio primo fidanzatino, ricordo il brivido degli scatti con le schede telefoniche e l'emozione a trovare una busta nella cassetta delle poste. Oggi nulla di tutto questo. Quindi la mia generazione, complice la tecnologia attuale, ha ridotto i figli a scimmiette dipendenti da uno schermo. L'educazione che i genitori dovrebbero fornire ai figli, dovrebbe servire pure a sviluppare un pensiero critico nei confronti di quello che giunge dagli schermi dei piccoli e rumorosi elettrodomestici antiecologici che si chiamavano "cellulari" e ora si chiamano "smartphone". Pensiero critico che la maggior parte degli adolescenti non possiede manco per niente, per colpa anche nostra. Laddove noi eravamo ancora quelli che cercavano di essere anticonformisti (se tutti avevano un oggetto, noi cercavamo di non possederlo per mostrarci diversi dalla media), ora viene premiato il conformismo, usando - come arma - il bisogno insito dell'essere umano di intrecciare relazioni appaganti. Quindi il paluso va a chi possiede uno smartphone, mentre viene messo un po' da parte chi non lo possiede. La colpa, manco a dirlo, è del genitore della nostra generazione, che temendo che il povero bambino di 13 anni rimanga isolato dal resto del branco d'incivili di cui fa parte, acquista l'oggetto del desiderio altrimenti il poverino viene dileggiato: troppo pesante cogliere l'opportunità per insegnare che l'amicizia è scevra di ricatti: questo causerebbe il perdere tempo prezioso togliendolo al proprio, il che diviene fastidioso.
Nella mia ignoranza genitoriale in tema di educazione, la Provvidenza mi ha donato tanti figli, il che mi ha portato a dimenticare che avevo da imporre un modo per nutrirsi («To', tieni 'sta tetta mentre cambio il pannolino a tuo fratello e riascolto Storia a tua sorella») o dormire («Macché lettino e lettino, dormiamo tutti qui che tanto a 12 anni non ci dormi più da mo' »)... Questo ha salvaguardato i miei figli da molte cose, tutte dipendenti da un modo di allevare figli che mi avrebbe reso un genitore tra il paranoico e il concentrato su se stesso (sto parlando di me, ovviamente). In qualche modo io mi sono trovata obbligata a fidarmi dei miei figli: vuoi che ce n'era sempre uno più piccolo, vuoi che sono sempre stata abbastanza sola nel prendere alcune decisioni (lo sposo si fida - sempre per rimanere in tema di fiducia - della mia genitorialità). Questo modo di crescere ha fatto sì che io fossi forzatamente costretta a fidarmi: pochi compiti controllati perché la Figlia G mi diceva che li aveva fatti (risciacquata della maestra per compiti non eseguiti, utilissima per imparare che si fanno i compiti assegnati, non si mente alla mamma, la relazione con l'insegnante dipende anche da te); ascolto dei pianti di Lillo perché il compito in classe di matematica era come un foglio bianco, non è vero che non ho studiato, mi veniva da vomitare, mi dispiace mamma (blocco di tutta la situazione scolastica, ricerca professionale, diagnosticata dislessia, richiesto modo diverso di fare i compiti in classe). In entrambi i casi, la cartafiducia ha funzionato egregiamente.
Fiducia, dicevo. Di loro mi fido in modo totale.
Sì, però sono terrorizzata. Non ho paura di dirlo con chiarezza. Quello che però mi fa percepire una sensazione di serenità (che sono pronta a mutare in agitazione e ansia nel giro di una manciata di millisecondi: non dimentico di essere una madre e non un fachiro) riguarda il fatto che quando ho avuto dubbi, incertezze o semplicemente momenti di fragilità, gliene ho parlato. Con entrambi, in modo trasparente.
Per esempio temo tantissimo che qualcuno si prenda gioco della Figlia G o di Lillo, che non li meriti, che non voglia loro bene. Il mondo è pieno di persone cresciute da genitori insensibili o anaffettive, che non sa amare, non avendone mai fatta esperienza. Poco m'importa che intreccino relazioni con persone che per vivere tolgono le macchie ai ghepardi o per passatempo controllano la verticalità delle pareti: in un mondo che vive di utilitarismo, non nascondo (sono una pessima attrice) di aver terrore di questo. Però mi fido: la Figlia G e Lillo, sono cresciuti con un papà che ha aiutato la mamma a studiare, sostenendola nelle difficoltà nel cercare una strada che la realizzasse, e hanno una mamma che tenta di darsi da fare per chi ha bisogno di un abbraccio, una coccola, una parola buona (remando contro la proverbiale asocialità della medesima). Inoltre possiedono una Tata che è amica della mamma da millenni, con la quale si sopportano, si supportano e si sgridano a vicenda quando sbagliano, ma con la quale mamma si scambia i figli secondo l'organizzazione familiare, aiutandosi nei momenti di difficoltà. Una reciprocità buona e gratuita, che mi auguro che la Figlia G e il Lillo abbiano assorbito assieme al bisogno di sincerità e trasparenza che le relazioni reciproche abbisognano.
Sono certa che Albus Silente non abbia appoggiato sempre il modo in cui Harry e i suoi amici hanno usato il Mantello dell'Invisibilità ch'egli regalò al ragazzo allegandolo al bigliettino con su scritto "Fanne buon uso", ma sono altrettanto sicura che dalla loro vita con noi, loro - i miei figli - faranno buon uso di quello che hanno appreso: nel male e nel bene.
Inoltre vi è una piccola nota celeste, in tutto questo: io sono stata solo il mezzo. Qualunque genitore è solo l'arco dal quale scoccano le frecce. Lui, il Padre grande che conosce il numero dei loro capelli, sa chi sono, sa tutto della loro vita ("Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro. Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non abbiate dunque paura: voi valete più di molti passeri!"). Avere Fede è, per me, accettare di buttarmi nelle Sue braccia, di cedere, di accettare, di non essere la protagoista delle mie speranze e delle mie preoccupazioni. Mettermi da parte perché sono anche io figlia Sua. Lui sa, Lui ama molto meglio di come io potrei soltanto immaginare. Lui ama.
Mi si porrà la domanda sul cosa c'entri questa noiosissima riflessione con la lavatrice giocattolo del Piccinaccolo. Presto detto: si dice che le famiglie tradizionali trasmettano una cultura che pregiudichi una spontaneità nei confronti della personale maturazione sessuale e sessuata. Come dire che intenzionalmente evitiamo ai maschi di giocare con giochi "femminili" e viceversa. Bene: il Piccinaccolo ha voluto, preteso una lavatrice. Per imitare mamma, mi si potrebbe suggerire. Può darsi, ma faccio umilmente notare che ci ha messo delle castagne, facendo finta che cuocessero girando nel cestello. Il Piccinaccolo si è inventato la "lavacuoci". Giochi da femmine, usati in modo maschile.
PS ci ha infilato pure dei calzini, porgendomeli poi perché li mettessi in asciugatrice. E non c'è nulla di strano, visto che mi vede farlo almeno tre volte al giorno.