Donne e uomini sono uguali.
Non è mai esistito che le donne siano migliori degli uomini o viceversa. Se una madre picchia un figlio o lo uccide, non compie un delitto di peso morale inferiore a un padre che compie il medesimo gesto.
Sia ben chiaro, questo.
Quando leggo i commentucci di chi afferma che limitando l'inesistente diritto alla soppressione del nascituro, si "torna indietro", mi percorre un brivido. Nei lunghi secoli di Storia dell'essere umano, i bambini hanno subìto ogni sorta di tortura, violenza, vessazione da parte del mondo adulto. Scrive Lloyd De Mause (psicostorico): «La storia dell'infanzia è un incubo dal quale solo di recente abbiamo cominciato a destarci. Più si va addietro nella storia, più basso appare il grado di attenzione per il bambino, e più frequentemente tocca a costui la sorte di venire assassinato, abbandonato, picchiato, terrorizzato, e di subire violenze sessuali».
L'empatia verso un nascituro, un neonato e un bambino, sono una conquista recentissima e, per dirla col linguaggio corrente, "progressista". Scrive ancora De Mause: «Che in precedenza tutto ciò (le violenze sui bambini di tutte le età, ndr) non abbia interessato gli storici, si deve al fatto che la storia ufficiale è stata considerata a lungo come registrazione di eventi pubblici, non di privati. Gli storici erano così concentrati su quel sensazionale teatro che è la storia, con i suoi castelli e le sue battaglie grandiose, da ignorare di solito cosa stesse accadendo all'interno delle case. E mentre essi guardano alle battaglie di ieri cercando le cause per quelle di oggi, noi invece ci chiediamo in che modo ciascuna generazione di padri e figli ponga le premesse dei fenomeni che più tardi emergeranno nella vita pubblica.In passato anche un atto come empatizzare con i bambini che venivano picchiati era per un adulto molto difficile. Quei pochi educatori che prima del nostro tempo rifiutarono le percosse come mezzo pedagogico, non lo facevano tanto per timore di far male ai bambini quanto per la convinzione che questa pratica potesse avere cattive conseguenze. Ma senza questo elemento empatico, il monito non ebbe effetto alcuno, e si continuò come prima con le botte. Le madri che spedivano i figli alle nutrici per tre anni erano sinceramente addolorate dal fatto che questi non volessero poi far ritorno, e per di più non riuscivano ad individuarne la ragione. Almeno cento generazioni di madri hanno fasciato i figli assistendo impassibili alle loro proteste, in quanto erano prive del meccanismo psichico che le avrebbe portate ad empatizzare con loro. Solo quando questa facoltà si stabilizzò, alla fine del lento processo storico di evoluzione dei rapporti genitori-figli, attraverso generazioni di interazione fra i due poli, apparve ovvio che le fasciature erano completamente inutili». E continua: «E mentre essi (gli storici) guardano alle battaglie di ieri cercando le cause per quelle di oggi, noi invece ci chiediamo in che modo ciascuna generazione di padri e figli ponga le premesse dei fenomeni che più tardi emergeranno nella vita pubblica.A prima vista questa scarsità d'interesse per la vita del bambino può sembrare strana. Tradizionalmente spetta agli storici l'ufficio di dare una spiegazione alla continuità e al mutamento, e sin da Platone sappiamo che l'infanzia è al proposito una chiave notevole. Ma l'importanza del rapporto genitori-figli per l'evoluzione sociale fu scoperta solo con Freud: lungo quindici secoli l'appello di Sant'Agostino: "Datemi altre madri, e vi darò un altro mondo", fu echeggiato dai pensatori maggiori, senza avere alcun effetto sulla storiografia».
Padri e madri non hanno riservato protezione e cura ai bambini per secoli e secoli, questo perché non ne avevano ricevuta alcuna e non ne comprendevano i motivi: quindi la sensibilità verso la fragilità del più piccolo e del piccolo disabile (che non corrisponde a quell'ideale di perfezione di moda), è attuale, moderna e innovatrice.
Quando ero piccola ho ricordi molto chiari di alcuni trattamenti a me riservati. Sia chiaro, non ne incolpo tanto i miei genitori, quando l'esercito dei vari consigliatori che, da sempre (anche attualmente) subbissa madri e padri. Ricordo di svegliarmi la notte piangendo, ricordo di essere in piedi arrampicata sulle sbarre del lettino, ricordo il bisogno di toccare, sentire, percepire mamma e papà vicini. Ricordo i miei pianti e il fatto che mia madre, pur di rispettare le regole datele dal pediatra, si sdraiava affianco al mio lettino, per terra, per tenermi la mano tra una sbarra e l'altra. Ricordo le mie fughe dalla cameretta per poter dormire, almeno per terra, di nascosto, in camera dei miei genitori: il freddo, la paura che si svegliassero e mi cacciassero. Ricordo la paura che avevo nei confronti della severità di mio padre e il fatto che la "combattessi" accoppiando il mio bicchiere, a tavola, con quello di mia madre. Ricordo le sculacciate che presi poiché non sapevo gli affluenti del Po (era ovvio: ero stata mandata a una scuola montessoriana dove queste nozioni non venivano trattate. Scoprii l'esistenza di articoli e nomi in quarta elementare, quando giunsi a una normalissima scuola statale), mentre le mie amichette d'infanzia - che tra l'altro assistevano imbarazzate alla scena - erano molto più informate sulla geografia idrogeologica. Ricordo la severità che mancava a mia madre nell'educarmi, secondo una nonna (nonna dolcissima ma suocera un po' giudicante, come molte tra l'altro). L'incubo pedagogico, probabilmente, era sempre il medesimo: l'educazione aveva l'obiettivo di forgiare una piccola personalità, verso una sorta di "perfezione". Per giungere a quest'ultima c'erano ogni sorta di metodologie e io, obiettivamente, ho tanti ricordi anche affettuosi dei miei genitori, che forse riuscivano a "rompere" quelle odiose indicazioni provenienti dall'esterno, per tentare di "sentirmi" maggiormente vicina. Ricordo la bellezza di quando mia mamma mi raccontava storie fantastiche (seppi in seguito che ella mi aveva fatto appassionare all'Iliade, all'Odissea, ai Promessi Sposi e a tanti racconti classici che poi studiai a scuola con molta scioltezza), oppure quando mio padre mi addormentava raccontandomi piccole paginette del Vangelo. Ricordo di fare il bagno con entrambi e, ferma nella mia memoria, ho la scena di me che mi desto - in una camera d'albergo a Grenoble - con i miei genitori nudi. Ricordo la viva percezione meravigliosa di constatare quanto amore c'era tra di loro, di sentire - indirettamente - quell'amore.
Quando ho sentito di essere amata dai miei genitori, insieme? Quando ho visto l'amore tra loro e nei miei confronti, e dalle parole attuali della mia mamma, che si ricorda bene le durissime indicazioni che le avevano fornito per non farmi crescere viziata da neonata, evinco l'enorme difficoltà di perdere quelle indicazioni, insite nell'istinto educativo genitoriale lungo generazioni e generazioni, per provare ad ascoltare un altro istinto, quello che potremo definire materno, ma io preferisco descrivere come "istinto alla relazione materno-infantile" (idem per quello relativo al papà e il figlio). Quando mia madre - sempre a suo parere - si è sentita serena e libera nella mia educazione? Quando poteva agire comprendendomi, osservandomi, ascoltandomi.
Quando, al contrario, mi sono sentita meno amata? Quando i miei genitori hanno iniziato a disprezzarsi. Prima mia madre, poi mio padre. Non so se "disprezzo" sia il termine giusto, ma l'allontanamento di chi mi aveva messo al mondo, ha provocato in me una lacerazione enorme. Per non parlare delle conseguenze. Entrambi "tornarono" ad avere comportamenti, nei miei confronti, stabiliti come da altri o da altro, influenzati dal loro malessere enorme e dal gigantesco peso del loro disamore reciproco. Quello che avviene in una famiglia non è mai privato. Il peso di ogni decisione e di ogni azione educativa non è mai solo qualcosa che può rimanere entro le quattro mura domestiche. Perché quello che ho subìto io e le conseguenze di ogni azione che la mia famiglia prima e i miei genitori poi, hanno attuato su di me, hanno strascichi enormi che solo l'infinito perseverare del sentirmi amata dal Signore e una dose massiccia di psicoterapia (che mi ha portato anch'essa verso una Fede più forte), hanno limitato. E tutto il peso del dolore che ho vissuto "privatamente" (ovvero sia "nascostamente") dagli occhi della società, ha avuto un contraccolpo enorme su ogni persona che ho incontrato e su ogni scelta che io ho compiuto anche sui miei figli. Non è mai una questione privata alcuna "libera" scelta nei confronti di un figlio, e la Storia del passato è strapiena, colma e pervasa di azioni che i genitori hanno compiuto tra le quattro mura domestiche, magari sapendo che la società e la cultura accettavano più o meno apertamente delle modalità di accudimento che oggi come oggi troviamo terrificanti, ma che non sono meno terrificanti di alcune norme che anche attualmente ritroviamo in tante famiglie.
Se i miei fossero dovuti stare insieme per forza perché non esisteva la possibilità di separarsi in presenza di figli? Me lo sono chiesto mille volte e le risposte che mi sono data riguardano sempre il fatto che certamente avrebbero avuto bisogno di aiuto esterno (quindi di un consulente familiare), avrebbero avuto bisogno di dosi intensive di intenzionalità, sicuramente non sarebbe stata una passeggiata ma avrebbero messo il mio bene davanti al loro. Mio padre non è una persona semplice e mia madre aveva dosi di sofferenza enormi sia derivanti dalla giovinezza, sia provenienti proprio dallo stare con mio padre. Entrambi sono spesso stati soffocati dal loro personalissimo modo di vedere ogni aspetto del matrimonio e per nulla sono stati aiutati a mettere al mondo il primo figlio della loro coppia, il "noi". Magari, se lo avessero fatto, avrei rischiato meno la vita montando in macchina con sconosciuti, mi sarei fatta meno canne, avrei certamente bevuto di meno, e non avrei cercato spasmodicamente l'amore in ogni anfratto della mia vita sociale.
Il poco amore che ogni figlio riceve anche dalla rottura del rapporto tra madre e padre, il fatto che siamo pieni di odio nei confronti della Vita umana e il rifiuto della ricerca verso il Bene, che non solo deve ricadere su ogni persona della famiglia, ma ha enormi conseguenze sulla vita sociale (la famiglia non è, quindi, un ente privato, ma pubblico) dovrebbe essere l'urgenza prima di ogni innovazione socio-culturale. Non è vero che la soppressione dei nascituri è roba attuale e un diritto inalienabile delle madri, come non è vero che la violenza sia sessuata. Se quello che sta a cuore è la cura della vita umana che dev'essere inclusiva, tollerante, aperta e accogliente, il seme sta nella protezione del più piccolo e fragile, parimenti a come è urgente la protezione di ogni singolo germoglio. Se l'urgenza è la prevenzione della natura da fonti inquinanti, perché non mettiamo tutte le energie politiche nella prevenzione del dolore umano? L'enorme dose di cattiveria umana che ha caratterizzato la vicenda infantile nell'arco di tutta la Storia, è dimostrata da quanto - anche attualmente nel secolarizzato, illuminato e moderno occidente - odio esiste ed è attuato nei confronti del più piccolo.
Quando proteggere un cucciolo di animale, salvare una foresta e prevenire l'inquinamento marino, sarà messo alla stregua della protezione del bambino perché ognuno di questi gesti ha enormi conseguenze sul nostro miserrimo pianeta, già sarà una conquista.
Il progresso è andare oltre l'adultocentrismo, la rivoluzione è la tenerezza.