Tra le mille storie con le quali sono cresciuta, ce n'è una che spesso
racconto ai miei figli. Quando mio padre andò a conoscere i nonni
paterni di mia madre (Tina e Paolo), chiacchierando del più e del meno
raccontò del fatto che suo padre, mio nonno paterno, fosse stato ferito
in guerra (ovviamente la II guerra mondiale): l'argomento era stato
introdotto dal nonno Paolo che, infatti, era stato un ragazzo del '99.
Erano tutti a tavola: dalla finestra dalla piccola sala da pranzo,
si vedeva il Lago di Como coi traghetti e, allora, quando di case ce
n'erano meno, era visibile (guardando verso nord-est) anche il monte San
Primo. La Tina (che poi si chiamava Serafina) non era una gran cuoca,
ma quel giorno c'era il futuro marito della nipote a tavola, per cui
sicuramente dall'orto qualcosa era stato colto.
Quando mio padre
raccontò del proprio papà, che combattette a Nikolaevka e sopravvisse
nonostante una scheggia di proiettile nell'occhio, la Tina ne fu
ammirata! La sua alta considerazione di chi aveva servito il Paese e
poteva mostrare le ferite che facevano onore al coraggio e allo sprezzo
del pericolo, le bloccarono letteralmente il boccone in bocca.
Cercando di ricomporsi, fece immediatamente mente locale: qui non si
stava parlando solo di un paragone tra la Grande Guerra e la seconda
guerra mondiale, qui c'erano in ballo onore e patriottismo. Mantenendo
la calma e deglutendo con noncalance, si rivolse al marito che aveva il
disonore, evidentemente, di essere tornato senza neppure una cicatrice.
Gli si rivolse in milanese:
"Te sentì Pàul?" ("Hai sentito, Paolo?")
"Eh, ù sentì, Tina" ("Ho sentito, Tina"), con tono abbattuto.
E la nonna, con tono melanconico:
"Che suddisfasìun per la sü mama" ("Che soddisfazione per la sua mamma"), riferendosi alla nonna di mio padre.