Accanto alla parola "genitorialità" sono state scritte le seguenti terminologie: "rinuncia", "rifiuto", "sacrificio", "privazione".
Se si vuole cercare un motovo alla denatalità, si trovi in questi termini. Le donne che potrebbero essere madri, sono state allevate da persone - spesso le loro stesse madri, ma anche altre donne alle quali è stato delegato il ruolo di educatrici - che non hanno rielaborato la loro esperienza di femmine, di figlie, di donne e di madri. In sostanza alle donne fertili è stato detto che fare la madre è bello se lo si desidera, se si pensa sia il momento giusto, se è quello che uno vuole. Altrimenti non c'è problema, il figlio, essendo un optional, lo si rifiuta oppure, banalmente, lo si dà ad altri da allevare, perché stare con questi è rinunciare a se stesse.
Il problema, in tutto questo, è che il figlio, fino a prova contraria, non è un optional. Il figlio è un essere umano che ha i medesimi diritti di chi lo ha concepito. Tuttavia, costui-costei, nutrito a "pane e deresponsabilità", presume di possedere dei diritti in più rispetto al figlio. Non si lotta più perché i propri figli vivano meglio dei genitori: i genitori, cosiddetti adulti, non rinunciano a nulla per i figli. Piuttosto che fare un passo indietro, rinunciano al figlio.
Non si è compreso il dramma di questa posizione: il bambino è al centro di un mondo adultocentrico ed egoriferito, nel quale non è nulla, non interessa a nessuno se non a chi, nel figlio, vede una propria realizzazione, la soluzione ai propri problemi di adulto. E questo accade perché moltissimi adulti di oggi, sono figli di genitori che si fanno vanto di non aver rinunciato a nulla per loro stessi, la loro carriera, i loro desideri e - soprattutto - la loro felicità. Ecco comparire adulti incapaci di fare un passo indietro nella carriera e quindi pretendere di affidare i figli a qualcun altro che li allevi, ecco adulti incapaci di educare i figli (per farlo devi starci): dai più piccoli, ai più grandi. Ed ecco l'infinito dolore, l'illimitata depressione, l'indefinita solitudine di questi figli attuali adolescenti. Un mondo adulto li ha fatti sentire un peso, una rottura di scatole, una noia: ha consegnato dunque cellulari e pc, e ha detto: "Senti figlio/figlia: è di grazia che sei venuto al mondo, hai un tetto sopra la testa, le scarpe di marca e una stanza tutta tua. Di più non puoi volere. Quindi stai di fronte a questo schermo e stai zitto/a".
E lì si è consumata la tragedia.
I giovani che potrebbero essere genitori (dopo i ventanni, se hai relazioni sessulai e sei capace di trattenere i tuoi istinti, hai la patente e puoi votare, puoi anche fare il genitore) non lo fanno perché cresciuti da persone non in grado di farli crescere con amore. Non sono giovani amati. Quindi non sanno amare. E amare non è usare i genitali per soddisfacimento personale all'indirizzo di qualsiasi cosa respiri, amare è donarsi, crescere, maturare per far sì che l'altro viva nel bene: amare significa "Voglio il tuo bene". Infatti, la stragrande maggioranza dei ragazzi e delle ragazze di oggi (motorino sotto le chiappe e smartphone in mano) non si sente amato, né è felice. Infatti soffre.
Accanto alla parola "genitorialità" devono invece andarci termini come: "accoglienza", "gioia", "soddisfazione", "gratificazione". Tutte parole che includono fatica, certo, ma la certezza che in punto di morte avremo amato, avremo dato tutto quello di cui c'è bisogno, avremo donato ai figli la speranza del futuro.
I figli non sono un optional, e se parlando di un figlio, la prima parola è "rinuncia", è fondamentale pensare di rielaborare la propria vita da figli.