Quando il nonno Piero tornò da Nikolajewka, aveva ventidue anni, una pallottola nell'occhio (quindi la testa tutta fasciata), il congelamento ad entrambi i piedi (che gli ritornò per tutti gli inverni, per tutta la vita) e il terrore di aver abbandonato i suoi commilitoni ventenni nella neve della Russia. Nella grande stanza piena di letti con i propri commilitoni, provenienti dal fronte, fece in tempo a fare la corte alla giovane crocerossina che gli disinfettava la ferita con affetto. Lei non disdegnava il corteggiamento, ma comunque manteneva la serietà datale dalla sua uniforme. Un uomo fasciato che quando scrisse le sue memorie di guerra (le "pubblicò" nel 2001), le dedicò tutte «Alla mia Mina, che nella mia ferita, trovò una ragione in più per volermi bene», stupendosi ancora, dopo cinquantotto anni, ch'ella cedesse al corteggiamento di un uomo mutilato (ebbe un occhio devitalizzato tutta la vita e zoppicò per sempre).
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Come fecero a decidere di sposarsi senza conoscersi.
Come fecero a decidere di sposarsi senza "conoscersi" (in senso biblico, ossia senza aver fatto sesso, condizione a tutt'oggi indispensabile, pare).
Come fecero a giurarsi amore eterno senza dubitare un solo giorno.
Come potettero solamente pensare di vivere tutta la vita col solo presupposto dell'intenzione di farlo.
Eppure lo fecero.
Il nonno Piero, quasi al termine della degenza, le chiese di sposarlo dietro le pagine di un giornale «per fare un po' di privacy», raccontava sempre. Dal primo giorno, alla proposta di nozze, solo qualche parola gentile e qualche sguardo educato. Lui ventisette anni. Lei ventiquattro. Senza troppe chiacchiere e tanti problemi.
Il nonno Gianni abitava a Moltrasio, sul lago di Como. Sfollò con la sua famiglia e dovette rimanerci dopo che la casa di Milano fu bombardata (rimase solo il tavolo). Aveva quattordici anni quando iniziò a consegnare la posta negli uffici del Banco di Roma: prendeva la bicicletta e arrivava a Como. Da lì col treno fino a Varedo. Da lì il tram.
A Varedo era sfollata anche la nonna Marisa, assieme alla famiglia. Lei frequentava l'Istituto Magistrale a Milano. Lei prendeva il tram per raggiungere la scuola.
Si conobbero quando lei aveva sedici anni e lui diciassette.
Lei non cedette subito.
Il nonno, con calma e determinazione, le portava disegnini molto infantili di bambini con fiori e animaletti. Lei accettava, sorrideva, ringraziava.
Il giorno dopo altro disegno. Stesso sorriso. Stesse parole di ringraziamento.
Così per un anno.
Qualche fiore.
Qualche letterina molto educata.
Lui non sapeva scrivere bene, ma disegnava in modo superlativo (nel 1982 coronò il suo sogno di diplomarsi all'Accademia d'Arte di Brera, a Milano).
A diciotto anni lei si diplomò (le assegnarono una classe prima elementare di quarantanove alunni dai cinque a tredici anni: li portò sino in quinta). Lui aveva quasi il diploma da geometra preso alle serali. Si fidanzarono. Due anni dopo si sposarono.
Conservo ancora tutte le loro lettere d'amore: parole gentili, qualche ricordo come petali di fiori secchi. Un paio di foto a Bellagio. Nulla, se non un bacio rubato quando già il nonno aveva parlato col papà della nonna.
Neppure loro si conoscevano bene.
Neppure loro si "conoscevano" prima di sposarsi.
Eppure un matrimonio durato cinquantanove anni.
Il corteggiamento non è roba da poco.
È roba da cavalieri e gente, come dice Lillo, che sanno gestire quello che c'è sotto la cintura.
Bisogna avere pazienza.
Tenacia.
Una donna che cede subito "Non vale la pena", dice sempre mio figlio.
Certo: ci vuole coraggio. Bisogna essere disposti a metterci la faccia. A non rinunciare al primo «No». Roba per veri uomini coraggiosi: non quelle mammolette che per far vedere che sono dei grandi e grossi machi, alzano poi le mani spesso sulle donne. Quelli sono dei deficienti, gente senza testosterone. Un vero uomo protegge, ama, difende, corteggia ed è umile. Purtroppo si è voluta scambiare la possenza maschile, con delle caratteristiche più simili alla codardìa.
Un uomo-cavaliere manda lettere. Manda fiori. Si fa notare ma non insiste. Se rifiutato non dispera, ma ritenta senza insistenza, ma con costanza. Corteggiare è un'arte per pochi, in effetti. E se la donna cede, o si fa avanti per prima (alcune sono proprio sfacciate), o ne approfitta per poi abbandonare subito, - per un vero uomo con la U maiuscola - non c'è partita: il campo va abbandonato senza neanche conoscre l'avversario.
Quando il Tato conobbe la Tata, si fece coraggio e, con la pazienza di un giocatore di scacchi, tentava l'approccio cortese. Lei rifiutava, lui sorrideva ma non demordeva. Messaggi senza risposta. Inviti a cena senza risposta. Inviti a prendere un gelato senza risposta. Telefonate senza risposta. Dichiarazione d'amore aperta, senza risposta.
La Tata cedette dopo sei mesi di corteggiamento delicato ma costante.
Capitolò quando lui rimase impassibile all'ennesimo rifiuto. Rimase lì, con il sorriso gentile, ma senza spostarsi di un millimetro. Le fece capire che era lei che lui voleva. Lei, la Tata. Non Tizia Caia Sempronia. Proprio LEI.
Al povero Sposo non andò meglio.
Messaggino. Silenzio.
Messaggino. Silenzio.
Telefonata. Risposta scocciata.
Telefonata. Non risposta.
Messaggino. Silenzio.
Ore 12.15: regalato CD di musica. «Grazie, ma non è musica che ascolto».
Ore 12.15: regalato altro CD di musica. «Grazie, ma non è musica che ascolto».
Ore 12.15: regalati fiori. «Grazie ma non mi piacciono i fiori recisi».
Ore 12.15: invito per un caffé. «Grazie ma non mi piace».
Ore 12.15: regalato altro CD di musica. «Grazie, ma non è musica che ascolto».
Il tutto proseguì fino all'invito a pranzo. «Grazie ma c'è il mio telefilm preferito».
Messaggini.
Bigliettini.
Musicassette dei REM (voleva andare sul sicuro).
Con calma e fortezza. Fino all'invito a cena. Accettai perchè volevo capire fin dove poteva arrivare. Lo guardai con gli occhi semichiusi e le sopracciglia asimmetriche. «Insomma: cosa vuoi da me?». Mi guardò strabuzzando lo sguardo. Credendo di averlo in pugno e di poterlo prendere in castagna, mi spinsi oltre e con voce perentorea l'ammonii: «Amico. Io ho avuto una vita di (molti problemi). La gente si è approfittata di me. Ho sofferto in modo indicibile e non ho avuto adolescenza. Ho vent'anni e diritto a una famiglia. Se vuoi farti una (serata divertente), riportami a casa e torna da dove sei venuto in modo silenzioso».
Il poverino era lì lì per strozzarsi con la pizza. La mozzarella colava dalla fetta sospesa per aria e pareva aver formato una di quelle stalagmiti che ci mettono cent'anni per creare suggestivi coni calcarei. Il tempo parve fermarsi. Gli tremarono vagamente le sopracciglia. Pareva la scena di "Mezzogiorno di fuoco" (io ero Clint Eastwood, naturalmente). Ci mancava la musica di Ennio Morricone.
Si riprese.
Ci mise qualche attimo, ma si riprese.
Si schiarì la gola.
Depose la pizza la cui farcitura era oramai sul piatto, caduta in battaglia.
Bevve un sorso. D'acqua, non di birra (evidentemente voleva dare l'idea di serietà).
Nessuno dei due abbassò lo sguardo.
Sfioravamo le fondine con le nostre pistole. Io ero pronta al fuoco.
«Va bene - disse con un fil di voce - a me va bene».
Sabato scorso ha cenato allo stesso tavolo, dello stesso ristorante, dopo essere stato al concerto di Ennio Morricone.
Ci ha portato la Figlia G, però.
Direi che pazientare per fare la corte, porta ai suoi frutti.
Non sfiorarla.
Non toccarla.
Non tentare di baciarla.
Ma corteggiala.
Fai i chilometri per portarle un fiore.
Fai i chilometri per offrirle un gelato.
Male che va lei rifiuterà. Una, due, dieci, venti. Poi capirà che fai sul serio. Che non vuoi "una" ragazza, ma lei.
Scrivile.
Chiamala.
Sorprendila.
Ti dirà di no.
Ti dirà forse.
Ti dirà magari.
Ma se sarai gentile e costante ella si chiederà se magari quel fiore non è il più bello che lei abbia mai visto.
Sii cavaliere, Santo Cielo!!