venerdì 23 ottobre 2020

E se un domani mi venisse detto che sono stata una pessima madre? "Stacce"

«Mamma, io vorrei proprio fare la mamma, da grande», queste le poche parole dette settimane fa da Lannina, e che ci hanno portato lontano. Sì perché le considerazioni che mi ha poi proposto sono risultate essere chiaramente il frutto di tutta una serie di ragionamenti che, evidentemente, sta compiendo da tempo. Il fatto di volere essere mamme, per lei implica il sacrificarsi per i figli. Me lo ha detto chiaramente: le mamme donano la loro vita ai figli. «Come hai fatto tu», mamma, ha poi aggiunto.



La mia bisnonna Lina Greppi Sagramoso con il sesto figlio, Giovanni (1930)

Chiedendole cosa la attrae della maternità, mi ha risposto che è incuriosita dalle sensazioni che si provano durante la gravidanza, durante il parto e l'allattamento («Perché tutte le mamme urlano, ma poi piangono di felicità, dopo che hanno partorito... è come se non sentissero il dolore, come se diventassero Avengers»), ma che le piace proprio l'idea di stare coi bambini... Allora le ho posto una domanda: «Ascolta, ma allora, tutte le volte che ti ho sgridato? Tutte le volte che ho perso la pazienza? Tutte le volte che ti ho fatto piangere negandoti ciò che mi chiedevi? Fare la mamma implica per forza anche essere definita "cattiva" quando si sgrida o quando si dice di "No!"». Lannina mi ha risposto che sgridare spesso significa voler bene, aiutare un bambino a capire dove sbaglia. «Quando ci sgridavi, io da piccola pensavo che non ci volessi bene, che tu davvero eri cattiva, che non ci volessi con te. Poi quando ho cominciato ad ascoltarti e a capire che lo facevi per insegnarci a comportarci anche tra di noi in maniera decente, mi sono tranquillizzata. I miei figli li sgriderò, se sbaglieranno». 
Essere mamme significa, per Lannina, trovare un equilibrio con il papà dei bambini: «I mariti vanno lasciati anche un po' nel "loro mondo" perché devono sfogarsi un po', come dici tu al papà quando vedi che è stanco di testa e lo mandi a pescare. E io vorrei un marito a cui piace stare coi bambini, non uno che dice di "no" a tutto o di "sì" a tutto». Essere mamme vuol dire anche «Essere organizzate con le amiche per guardarsi a vicenda i figli, vuole dire lavorare ma solo quando si riesce perché è tanto bello stare coi propri bambini, aiutarli a fare i compiti, aiutarli a crescere».

Devo però dire, riconoscendolo senza ritegno alcuno, che c'è una cosa, che mi affligge oltremodo. Lannina, che è molto carina, quando non digrigna i denti picchiandosi coi fratelli, mi ha "graziato" assumendosi la parziale responsabilità -diciamo così- delle sgridate che lei e i suoi fratelli si sono presi. Ciò è sicuramente caritatevole e probabilmente è vero che lei ha compreso che talvolta mamma è stanca e se si esagera facendola uscire dai gangheri, è possibile prendersi qualche urlo. Ora, però, io so bene che ci sono stati momenti nei quali, non avendo riflettuto assolutamente e mancandomi punti di riferimento, ho sbagliato. Per esempio ho sempre ammesso che con la Figlia G ho preso cantonate mostruose sul sonno (la lasciavo piangere quando era neonata: così mi era stato detto di fare e ho scelto di fare), che ho avuto pochissima pazienza quando aveva le classiche crisi dei due anni o quando faceva i dispetti al Lillo. Con la scuola, poi, non ne parliamo: nonostante le sofferenze che mi ricordavo di aver vissuto da bambina nel momento dei compiti a casa, io mi sono ritrovata a cacciare urli poderosi quando lei non s'impegnava, come era stato fatto con me. In realtà lei si sarebbe pure impegnata se non fosse stata terrorizzata dalla persona che più amava che, in quel momento, era incapace di gestire la propria rabbia. Si sarebbe impegnata maggiormente se io l'avessi fatta relazionare direttamente con l'insegnante, dicendole solo che sarei stata presente nel momento in cui avesse avuto bisogno di piccoli suggerimenti: invece mi sostituivo all'insegnante, tentavo di farle capire cose che non stava a me farle capire e, dopo che l'avevo ben confusa, mi arrabbiavo (tra l'altro ero -sono- una capra in matematica: guardacaso mi arrabbiavo tantissimo spiegandole proprio matematica). Probabilmente mi dava anche fastidio, ma questo l'ho dedotto col tempo, che l'insegnante pensasse che non stessi dietro a mia figlia (tipico del genitore che corregge i compiti perché non vuole mandare a scuola i figli coi compiti sbagliati: roba "da chiodi", ovviamente). Insomma, nonostante le mille lacrime che io bambina avevo versato sui quaderni di scuola, non riuscivo a "scollegarmi" da ciò che avevo vissuto. E così, senza volerlo, mi comportavo nell'unico modo pensavo fosse possibile. Piano piano scavai nel mio cuore e trattenni, di quello che ricordavo di aver vissuto, solo quello che desideravo pensare fosse corretto, inventandomi un modo per essere genitore. Smisi di obbligare mia figlia a temere la mia presenza quando doveva fare i compiti: decisi di darle fiducia e di fidarmi di lei anche per ciò che riguardava lo svolgimento dei compiti (in soldoni: se sbagli un compito, sarà la maestra a correggerti. È un suo problema). Ovviamente la nostra relazione migliorò, ma come scusarmi degli errori passati? Come cancellare urli sulle tabelline? Come cancellare offese sulla coniugazione dei verbi? Come farmi perdonare i fogli strappati?
Ammettendolo. «Figlia - dissi un giorno in cui lei mi rinfacciò di averla torturata per la scuola - ho sbagliato. Sì: i genitori sbagliano. Tutti. E sono fragili. Ed è diritto dei figli sia sapere che i genitori possono sbagliare, sia che sono umanissimi». Fu facile? No. Ma se esiste un comandamento che è "Onora il padre e la madre", dovrebbe anche esserci quello che dice "Onora il figlio", che non è assolutamente "Copri il figlio di giochi, giustifica ogni sua malefatta, dagliele tutte vinte e percuotiti il petto dicendo che sei stato un genitore simile a sterco di elefante", ma è semplicemente "Ammetti che sei umano e se sbagli chiedi scusa, se sbaglia il figlio aiutalo a capire come rimediare".

Quando iniziai a fare testimonianza come mamma, all'inizio della mia carriera di ostetrica, imparai che la cosa migliore è iniziare con gli errori. E siccome la Figlia G mi seguiva spessissimo (facevamo l'educazione parentale, quindi lei stava sempre con me), lo facevo davanti a lei. Iniziavo col dire che non mi ero preparata per nulla all'arrivo di un neonato, quando ero in attesa di lei. Proseguivo col dire che l'avevo lasciata piangere per ore. Continuavo con l'ammettere tranquillamente (mica tanto: era imbarazzante e me ne vergognavo) che qualche sculacciata l'avevo data e concludevo dicendo che ero stata pessima durante il periodo scolastico. Diverse volte, una volta ascoltata questa mia sequela di schifezze educative, c'era chi mi diceva, quasi sollevata, che anche lei aveva sbagliato e si sentiva in colpa, ma più leggera grazie alla mia condivisione. Oppure spesso mi è capitato che mi venisse detto che ero coraggiosa a fare queste ammissioni di fronte a mia figlia (mai stata coraggiosa: talvolta mi dimenticavo ci fosse). Il succo qual è? 
In quanto figli abbiamo subìto gli errori dei genitori, ma in quanto genitori dobbiamo fare i conti che faremo errori coi figli. Probabilmente l'errore degli errori è sia pensare solo che si abbiamo sbagliato e che i nostri figli ci odieranno, sia che è fondamentalmente impossibile che i nostri figli non possano pensare, una volta cresciuti, che abbiamo sbagliato. Perché se da una parte si pecca di falsa umiltà, dall'altra si cade nella superbia. E se nel primo caso un figlio potrebbe pensare che allora fa bene a colpevolizzare il genitore (visto che per primo il genitore fa il mea culpa), nel secondo caso il figlio potrebbe trovarsi nella circostanza di dire al genitore che ha sbagliato e questi potrebbe rimanerci di sasso.

Io scelsi la strada impervia di stare con mia figlia 24 ore al giorno all'età di 11 anni: lo feci per tanti motivi (sicuramente la scuola era uno di questi, e comunque il suo approccio ansioso allo studio era radicato in ciò che le avevo trasmesso) tra i quali c'era sicuramente quello di affrontarla nel momento in cui lei avrebbe avuto più facilità ad allontanarsi da me per cercare risposte fuori da casa (magari qualche amica o qualche ragazzino). Lo feci nel momento in cui io avrei potuto tranquillamente "lasciarla libera" di iniziare a fare le sue scelte. Lo feci quando qualsiasi genitore sarebbe tentato di guardare altrove. Sì, è vero, me lo chiese lei con l'inizio delle scuole medie e per un anno circa fu semplice: poi crebbe e cominciò l'adolescenza. Lì io cominciai a ricevere le sue lamentele per tutto quello che avevo sbagliato (intraprendere un'università e il lavoro che mi portava fuori casa, ad esempio) e cominciarono i nostri screzi. Soffrii? Sì. Ero in crisi? Sì. Arrivai a temere che scappasse di casa come aveva minacciato di fare. 
E se da una parte cercavo informazioni e sostegno professionali, dall'altra mi guardai allo specchio e mi dissi che era il momento di dire a me stessa:«Stacce». E più «ce stavo», più ci affrontavamo. E più ci affrontavamo, più ci volevamo bene. E più ci volevamo bene, più io mostravo empatia con lei e lei la mostrava per me. Crescemmo. Io imparai che nella fase adolescenziale è fondamentale essere adulti (dando limiti, regole e tutto il resto), ma è legittimo parlare, chiarirsi, spiegare e chiedersi scusa.

Dio, quando decide che quel minuscolo zigote sarà NOME e COGNOME, sa che siamo in grado di essere i genitori, sa che da quel momento possiamo essere migliori, possiamo dare il meglio di noi. Sbaglieremo? Sì. Soffriremo perché abbiamo sbagliato? Sì. 

Don Fabio direbbe: «Stacce».

«Che cos'è il contrario della tua bellezza? La tua paura. Cos'è che ti fa diventare l'ombra di te stesso? Quando credi alle tue paure. Di paure ce ne sono di due tipi: ci sono paure buone che sono, ad esempio, la saggezza. Le paure che danno senso dei limiti, le cose per le quali devi stare attento, le cose da difendere, da proteggere... ma non parliamo di queste paure qua. Ci sono paure cattive, ossia quelle che t'incastrano. [...] Madre Teresa di Calcutta diceva che il nemico più grande è la paura. Non gli altri. Non la malattia. La paura. Cosa ti rende l'ombra di te stesso? Quando tu credi alle tue paure. [...] Chiunque annuncia il Vangelo, combatte contro la paura di chi lo ascolta. Come l'Arcangelo Gabriele con Maria (tant'è che deve rassicurarla dicendo 'Non temere', ndr). La paura, quando esplode, diventa angoscia. Angoscia e ansia vengono dalla stessa parola latina che significa 'angolo'. L'angoscia è la sensazione di percorrere un vicolo cieco, dicono gli psicologi [...]. Fa pure comodo stare all'angolo [...], sempre che tu non sia inseguito come una preda [...] La nostra paura ci vede senza via d'uscita. [...] Finché Dio non lo incontri nel cuore delle tue paure, tu non lo incontri [...] altrimenti la vita sarà sempre scappare, sarà sempre fuggire. Ognuno possiede le proprie Grazie, ma pure le sue paure. Le paure possono far compiere scelte. Molta gente pensa di avere desideri, ma di desideri ne conosco pochissimi. Di solito sono paure truccate da desideri. "Ti vuoi sposare? No! Hai paura di restare solo!" (la paura di restare solo fa sì che tu desideri di sposarti a tutti i costi) [...]. La paura porta a una vita da prede. Qual è la tua paura? Se vai a vedere i tuoi tragitti disegnano tutte le traiettorie per evitare quella cosa lì della quale hai paura. Tutti gli atti li compi per evitare di trovarti in quelle circostanze lì. Come parli, cosa dici... tutto pur di evitare quella cosa lì. Quindi non sei libero. Tu sei uno a cui non deve capitare qualcosa. [...] La paura fa sì che io sia un fuggiasco. E penso che quando incontro la Fede, incontro qualcuno che mi rassicuri [...]. La Fede non dà rassicurazioni: le risposte rassicuranti destabilizzano, le risposte destabilizzanti rassicurano. Se tu vieni da me e mi dici che nessuno ti accetta, io posso risponderti in due modi: una rassicurante e una destabilizzante. La rassicurante dice: "Ma no, dai, non è così. Se qualcuno ti ha rifiutato sbaglia, vedrai che ci sarà sempre qualcuno che ti vuole bene" [...], tipo le rassicurazioni dei film americani. Cosa ti sto dicendo? La vita dipende da essere accettati. E questo è falso. La vita dipende dal fatto che gli altri ti apprezzano: e questo è terribile. Se io sono un pessimo prete, do risposte rassicuranti. [...] Quando un parrocchiano mi venne a dire che aveva un tumore ai polmoni e forse un anno di vita, potevo rispondere rassicurandolo e dicendogli che avrei chiamato tutti i monasteri a pregare: "Ma tu non buttarti giù, devi continuare a sperare". E tutte 'ste cretinate qua che spesso i preti dicono. Cosa gli sto dicendo, così? Che il tumore è veramente un problema. Ed è più forte di Dio. Quindi ti devo rassicurare dicendo che Dio ti toglie il tumore.
Se tu vieni da me e mi dici che nessuno ti accetta, io devo darti una risposta destabilizzante. Ti risponderò: "Sorella mia, il cuore di una persona libera è pieno di cicatrici. La vita non dipende da ciò che gli altri pensano di te, ma di quello che Dio pensa di te: non essere una schiava. Prendi l'occasione di questi rifiuti che hai subito, per diventare adulta. Nessuno ti accetta. E allora? Che problema è?" Questa è una risposta destabilizzante. Al parrocchiano malato di tumore, io risposi: "È terribile, ma credi di essere il primo che incontra Dio in un tumore? Questa è la tua opera d'arte. La vita ti sta dando un tumore serio: entraci. Fidati di Dio. Non resterai deluso". (Don Fabio Rosini)

E se un domani qualunque figlio adulto mi dicesse che sono stata una pessima madre? Gli risponderò che sì, è vero: d'altronde Nostro Signore lo ha affidato a me. Avendo tentato di avere una relazione chiara, trasparente, vera (che non vuole dire perfetta) con i miei figli, loro sanno che il mio impegno nel fornire spiegazioni dei limiti che possiedo, è totale. Se un figlio mette di fronte al genitore il fatto di essersi comportato in un modo che ha provocato sofferenza al figlio medesimo, è perché il genitore non è stato chiaro, perché la relazione non è chiara, o perché il genitore non è assolutamente chiaro con se stesso (ho usato la stessa parola non a caso). Il fatto che la Figlia G mi abbia chiesto perché l'ho fatta soffrire e il fatto che lei lo abbia rinfacciato, mi ha posto il problema di affrontare i miei limiti che io per prima fuggivo. Quando ho accettato di averli e che continuerò ad averli, le ho potuto rispondere che sì, ero stata pessima, che mi dispiaceva moltissimo, ma che, d'altronde, era così. La ringraziai più e più volte di avermi spiegato che la trasparenza relazionale è importantissima: questo non significò in nessun modo che il nostro rapporto divenne "amicale", ma che i limiti e le regole venivano spiegati e compresi e, se non compresi, accettati e basta (non era ancora adulta), ma senza grandi sofferenze da parte sua. 
Infondo, ho scelto di essere una madre libera da pregiudizi negativi nei confronti dei figli, libera da ideologie educative, libera da catene imposte da errori altrui (perché fa comodo addossare sempre la colpa a chi ci ha preceduto) e libera da falsa umiltà o superbia. Per farlo, ogni giorno lo affronto prendendolo con forza e ringraziando Dio che non mi molla, che mi è affianco. E, ringraziandolo di avermi affidato i miei figli, quando arrivano problemi, so di averlo al mio fianco. Malamente, ma ho tentato di scegliere la via della vita adulta.