E, inesorabilmente, inequivocabilmente, comprensibilmente, la mia risposta è:
È possibile che io l'abbia già raccontato (famosa, oramai, la mia 'punta d'Alzheimer', come la chiama gentilmente Lillo), ma mi ripeterò. Quando la Figlia G volle un telefono, era in prima superiore, e le venne consegnato il classico Nokia base da 12 euro e poco più. Io ho sempre personalmente sostenuto che i compiti si chiedono ai compagni (magari quelli meno distratti) e con le amiche non ci si messaggia se non per darsi appuntamento al parco o in centro per far due passi. Gruppi, social, triccheballacche ed altro non sono vitali, ergo scatta il famoso "tarrangi" (come madre ho un sacco della nettezza urbana di sensi di colpa, ma non uso questi per soddisfare le finte necessità dei miei figli: tutto merito dei miei due 'bastoni della psiche' che sono il mio confessore e il mio psichiatra). Quindi la Figlia G, munita del suo bagaglio d'imbarazzo verso la decisione materna di non fornire un cellulare alla moda (più di 30 euro di tecnologia non la consegno in mano a un/una quattordicenne), non estraeva il telefono in pubblico. Fattostà che un giorno sapevo che sarebbe uscita di scuola con le compagne e sarebbe tornata a casa più tardi, ma sforò di almeno mezz'ora, così afferrai passeggino e fratelli minori e uscii a recuperarla. Lo Sposo, nel frattempo, aveva già pronto il numero dell'unità cinofila, i pompieri, la Guardia Svizzera e il KGB.
La vidi in gelateria, ridacchiante come solo le femmine di quattordici anni sanno essere, circondata da compagne e compagni. Mi sedetti, con tutti gli altri figli, al tavolino accanto e attesi che ella, sempre ridacchiando, notasse il mio sguardo e intercettasse il guaio dov'era finita. Non dissi nulla. Non pronunciai una sola parola. Quando ella mi vide assistetti alla morte del sorriso più eclatante della storia del cinema, ma non lo diede a vedere ai suoi amici. Salutò con allegria mentre con un occhio non mi perdeva di vista e con l'altro tentava di mantenere un tono "up" con amiche e compagni. Mi raggiunse l tavolino dove sedevamo io e i fratelli, e con aria sempre sorridente (alcuni amici la guardavano) ma lo sguardo terrorizzato, mi bofonchiava qualcosa che assomigliava di più al suono emesso da quei giocattoli per bambini che, schiacciati, emettono delle semi pernacchie, ma che siccome sono vecchi e logori, si limitano a un suono stridente e sgradevole. Con la classe della professoressa McGranitt quando desidererebbe trasfigurare Ron in un orologio da taschino per far sì che lui ed Harry fossero puntuali ma non lo fa per pura carità, e la perfidia di Malocchio Moody che trasfigura Malfoy in un furetto solo per dispetto, mi alzai dal tavolino e mi limitai a che fossero i fratelli più piccoli a chiedere alla Figlia G come mai non rispondesse al telefono. Tacqui per un po' e poi, indecisa tra la distruzione molecolare e la predica giornaliera, chiesi alla figlia cosa le avesse impedito di rispondere alle mie 46294 chiamate (evitando di dire che mi ero immaginata i soliti eventi tragici: rapimento per la tratta delle bianche e schiacciamento sotto il pullman compresi). Lei mi rispose scusandosi profusamente e adducendo la colpa al fatto che il suo cellulare fosse vetusto e che si sentisse in imbarazzo a mostrarlo agli amici. La cosa si concluse con un modesto ammonimento (le ghiandole salivari delle madri producono Maalox al bisogno, quando invece che sputare fuoco, s'ingentiliscono di parole degne della Fata Turchina) su un semplice fatto: la bellezza sta nel distinguersi, l'occasione sta nel farsi promotori di un'idea diversa. Se tutti si vestono a colori, perché non essere monocromatici? Se tutti si parlano con un cellulare che privilegia una messaggistica instantanea che non lascia il cervello sbollire e ragionare, perché non fare diversamente? Lei capì subito e entrò nella sua fase dark (il che ci costò di parrucchiere - perché le dark more si fanno bionde e viceversa - e di abiti neri alla Blues Brothers) che superò in qualche annetto, ma soprattutto iniziò a non interessarle poi più molto del fatto di essere come gli altri. La sua fase dark mi innervosì un po', ma poi capii che il modo migliore perché la superasse velocemente fu che io la agevolassi e accondiscendessi alla sua moda, arrivando a stupirmi se indossava qualche colore più tenue. Essendo stata una dark più morbida (da adolescente mi abbigliavo da hippie molto floreale, ma il trucco consisteva in occhi pitturati di nero e le scarpe erano sempre gli anfibi neri) comprendevo il pantalone di pelle e il Chiodo, ma pure le stringhe fluorescenti delle DrMartens (ovviamente di colore diverso). Compresi che lei voleva essere accettata nella sua moda, quindi la accettai e, semplicemente, le passò.
Ora, il discorso si fa pesante: quando dare il telefono ai figli? Ma soprattutto, quanto l'uso del telefono influenza realmente i figli?
Con Lillo il discorso fu diverso: andava in giro in bici sin dalla seconda media, e avevamo bisogno di un GPS (che poi un paio di volte ci fu utile perché cadde e si fece -poco- male): inutile dire che dovemmo bloccare ogni accesso internet perché dai compagni giunsero brutte cose. Nella vita, però, le brutte cose è necessario affrontarle standoci e prendendocisi a sberle. E così feci: io e Lillo parlammo, parlammo, parlammo. Io accolsi i suoi ovvii sprazzi ormonali, ma non gli scontai nulla: ero presente, pesantemente presente. Lo abbracciavo nelle sue difficoltà, dicendogli le mie, e talvolta abbiamo pianto assieme, come è successo che ridessimo autoironizzando su noi stessi.
Sono perciò giunta alla conclusione che nulla è più di tanto pericoloso (internet va comunque monitorato, spiegato e imparato a usare) se i genitori ci sono. Esserci per i figli non significa erigersi ad esempi di chissà che perfezione (anche perché i figli sarebbero liberi di risponderci con una jam session di pernacchie); non significa far scontare ai figli i nostri sacrifici verso di loro, magari enumerando soldi spesi, fatiche della gravidanza o difficoltà logistiche risolte con grande difficoltà (anche perché la risposta potrebbe solo essere «Ma che c**** me ne frega, sono c**** vostri!!» e non potrei biasimarli); non significa ridicolizzarli in pubblico, magari facendo confronti tra fratelli, magari canzonandoli per il taglio di capelli o per l'abbigliamento (ce la vedo la risposta: «Ti sei visto/a allo specchio??»). Niente del genere, ma solo tanto rispetto e qualche stimolo a portare avanti le proprie idee solo se sono buone, se fanno bene... La mia prof di Pedagogia alle Magistrali ci spiegò che potevamo fare tante scelte nella nostra vita, ma se tali scelte avressero portato a farci del male (magari facendoci perdere l'anno scolastico o rovinandoci la salute), sarebbero state le scelte del Male.
Il problema di Lillo, quindi, non era nel telefono e nell'uso dell'"elettrodomestico rumoroso" (come talvolta lo chiamo io), ma era nel fatto che la maturazione della persona sta nella relazione reale e viva con chi la educa: se un giovane, un ragazzino, è lasciato solo, rischia d'incappare in situazioni che già uno piuttosto 'dritto' in fatto di pedagogia, San Giovanni Bosco, descriveva bene in massime come questa: "I ragazzi, se non li occupiamo noi, si occuperanno da soli e certamente in idee e cose non buone".
Questo vale per tutti gli argomenti. Tutti.
Ora: Lannina ha iniziato le scuole medie. Ovviamente è una delle pochissime (grazie a Dio è capitata in una classe piccola) che non ha che una specie di Nokia giurassico che tiene per sicurezza dovessimo ritardare nell'andarla a prendere a scuola (tra l'altro è finito in lavatrice già un paio di volte e funziona: alla faccia dei vari attrezzi supersonici attuali). Ha ogni facoltà di sentirsi con le amiche (meglio la telefonata alla compagna per i compiti, piuttosto che il registro elettronico: almeno si fanno anche due pettegolezzi), ma con il mio apparecchio. Ho potuto constatare che il suo non essere dotata di cellulare, dopo le dovute e chilometriche discussioni, le ha fatto bene. Ovvio, in tutto questo processo sono passata per essere descritta, dalla Figlia G, la "mamma cattiva" che non dà il telefonino (stile Grimilde e Malefica), ma io sono (finalmente) certa del mio ruolo (ci sono arrivata dopo anni di psicoterapia e confessioni con mio parroco) e non temo offese di quel genere (come Malefica e Grimilde erano due grandissime figaccione). Il risultato è comunque che Lannina oggi non sente tutta questa necessità che è mero bisogno di omologazione con i pari (fisiologica all'inizio dell'adolescenza).
Affermato questo io sono certa che mio figlio abbia visto determinate immagini. Lo ha potuto fare tramite amici e compagni, questo non toglie che lui abbia saputo - da subito - che quello che stava facendo era sbagliato: che quei messaggi sono sbagliati. Va data, io penso, la possibilità di sbagliare, perché noi genitori non siamo perfetti: tutt'altro. La nostra 'umanità' va mostrata e non nascosta. Tuttavia il figlio deve maturare il senso di colpa, come dice il Prof Tonino Cantelmi, che non è l'ultimo arrivato: «Ha ragione Massimo Recalcati. Senza un recupero del “senso di colpa” (già, proprio di quel senso di colpa, tanto vituperato e poi seppellito, negli ultimi decenni, con esasperato accanimento, dall’esaltazione narcisistica dell’autogiustificazione, dell’indulgenza estrema con se stessi, dell’autoassoluzione senza se e senza ma e della deresponsabilizzazione dei comportamenti), ebbene senza il senso di colpa non c’è “legge” che possa iscriversi nel cuore dell’uomo, non c’è argine all’oltraggio e non c’è contenimento all’attitudine predatoria nei rapporti umani».
Per compiersi la maturazione dell'individuo, il figlio va lasciato maturare, rimanendo genitori. Infondo è stato scritto: «Questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (Lc 15, 31-32).